di Victor Musetti.
Torna il cinema anarchico e inclassificabile di Ulrich Seidl, questa volta con il suo film forse più libero e privo di sovrastrutture di sempre. In the Basement è infatti una sorta di documentario – così fu presentato Fuori Concorso a Venezia nel 2014 – che ha però tutte le caratteristiche dei lavori di fiction più famosi del regista austriaco. E’ un po’ come se fosse una vetrina del suo cinema, uno zoo in cui mettere in scena a proprio piacimento persone e luoghi realmente esistenti senza rinunciare a quell’estetica, suo vero marchio di fabbrica, costruitasi ed evolutasi negli anni con capolavori come Canicola, Import/Export, e la trilogia Paradise.
La linea tematica che unisce i vari segmenti del film è, come il titolo suggerisce (letteralmente “In cantina“), l’idea che la cantina sia il luogo in cui i cittadini austriaci riescono ad essere veramente sé stessi. Chiusi sottoterra durante il proprio tempo libero vi esercitano infatti le attività più disparate, lontane dagli occhi e dalle orecchie indiscrete, liberi dal vincolo del giudizio morale di una società incatenata dai propri tabù e dal bisogno di conservare un’integrità di facciata.
I vari personaggi, veri o presunti tali, sono presentati con uno stile perlopiù documentaristico con sporadiche interviste e, nella maggior parte dei casi, con semplici inquadrature fisse che fermano il tempo, nella miglior tradizione di Seidl, mentre i soggetti filmati guardano impassibili verso la macchina da presa. Un cantante lirico che insegna a sparare ai suoi amici nel suo poligono di tiro privato, un nostalgico di Hitler che beve insieme ai membri della sua orchestra in una stanza adibita all’esposizione di quadri e gingilli nazisti, una coppia che vive un rapporto schiavo-padrone come espressione massima dell’amore e della fiducia reciproca, sono solo alcuni dei personaggi scovati e/o creati da Seidl di cui facciamo conoscenza nel film.
Ciò che stupisce maggiormente, come sempre nel suo cinema, è la capacità di plasmare la realtà a proprio piacimento piegandola sotto la propria estetica e il proprio linguaggio, senza per questo mancare di rispetto nei confronti della stessa. Quando i personaggi non sono completamente inventati di suo pugno, Seidl riesce infatti a dirigerli e a far fare loro cose che mettono di fronte a seri dubbi su dove si trovi il limite tra realtà e rappresentazione. Penso infatti allo schiavo sessuale della coppia sadomasochista che pulisce la doccia con la propria lingua e lava le stoviglie con un peso legato ai testicoli. Quale soggetto migliore di questo poteva adattarsi così bene all’antropologico cinema della carne del regista austriaco?
Ma lo sguardo di Seidl, nel suo essere impietosamente distante – non interviene mai – e al tempo stesso presente – quello che vediamo è comunque il suo sguardo e la sua messa in scena – non è mai cinico o moralista. Il suo è uno sguardo innamorato del mondo e degli uomini, delle loro particolarità e dei loro eccessi. Sono sullo stesso piano il simpatico vecchietto simpatizzante nazista e la donna masochista che, vittima di violenze sessuali da parte dell’ex marito, lavora per la caritas e assiste donne che hanno subito abusi. In the Basement è un film che affascina, sconvolge o fa ridere tanto, tantissimo. Dipende tutto da chi lo sta guardando. Seidl ha di certo una notevole voglia di provocare e lasciare il segno (c’è almeno un’inquadratura in cui sono coinvolti una corda e un paio di testicoli che è da storia del cinema), ma per ciò che riguarda le malignità che si possono pensare nel guardare persone che si mettono a nudo di fronte alla macchina da presa, la sua rappresentazione si astiene da qualsiasi forma di giudizio. Chi pensa male, semmai, è solo lo spettatore.