Millennium Mambo, il racconto del passaggio per Hou Hsiao-hsien – di Francesca Fichera.
È da molti ritenuto il capolavoro di Hou Hsiao-Hsien, maestro orientale del realismo onirico, che nel 2001, in quel del Festival di Cannes e proprio grazie a Millennium Mambo, sfiora il successo popolare andando alla ribalta del mondo. Quattro anni più tardi, nel 2005, riesce ancora a colpire il cuore degli spettatori con il delicatissimo Three Times, su un amore in tre tempi. Quello del Millennium, invece, ha un tempo solo: loop, ripetizione, l’eternità di un momento.
Anche lì, come più tardi, protagonista è Shu Qi, stupenda musa del regista taiwanese che, uscita dall’industria del porno, ha deciso di regalare il suo viso e il suo corpo al cinema d’autore – da vedere pure nel variopinto Love di Doze Niu, cineasta qui presente in un trascurato cammeo. Così per Millennium Mambo è diventata Vicky, giovane e bella “slacker” (letteralmente: fannullona) di Taipei piegata dalla trappola di una relazione difficile con il tossico e gelosissimo Hao-Hao (Chun-hao Tan).
Fiumi di alcol, fumo e stupefacenti scorrono lungo l’argine ben più largo del tempo, reso azzurro dai dosaggi di luce di Ping Bin Lee e sfuggente dalle ellissi del racconto, discontinuo come un sogno e doloroso come la verità. Con il supporto di una voce narrante che sputa la realtà punto dopo punto, Millennium Mambo comincia e va avanti singhiozzando, a immagine e somiglianza della travagliata storia d’amore di cui è teatro, aprendosi con una delle sequenze cinematografiche – quella con Shu Qui/Vicky che corre al rallentatore lungo un corridoio illuminato dai neon – più vivide e significative della storia, con la quale Hou Hsiao-Hsien porta a termine l’impresa di rendere metaforicamente il senso universale del passaggio: da un luogo, da un millennio, da un amore all’altro.
Meno sottile del successivo e più maturo Three Times, Millennium Mambo è un diamante allo stato grezzo piccolo e sporco, affascinante rapsodia techno in blu entrata a far parte – passo dopo passo – dell’affollato ma ristretto impero dei cult forse grazie, anche e soprattutto, alla sua ultima frase:un quadro immobile che, dopo tanto pulsare e muoversi, vale la pena di raggiungere e di contemplare.