Louisiana

Louisiana [The Other Side] (Roberto Minervini, 2015)

di Francesca Fichera.

José “Pepe” Mujica una volta ha detto che chi non riesce ad essere felice con poco non potrà esserlo mai, in nessuna circostanza. Principio vero sulla carta – ma non sempre realistico – che Louisiana di Roberto Minervini colloca fra le righe del suo discorso quasi a voler rigirare il quesito: si può essere felici così?

La risposta suggerita dal racconto in immagini di questo other side, la faccia in ombra dell’abnorme sogno americano, appare chiaramente negativa; eppure gli inediti protagonisti di questo documentario scritto e diretto dal regista nostrano insieme con la moglie Denise Ping Lee dimostrano che l’innato tendere degli uomini alla realizzazione della “buona sorte” è in grado di adattarsi a qualsiasi tipo di situazione, anche la più drammatica. E il dramma assoluto costituisce l’essenza delle esistenze degli abitanti di Lousiana, divisi fra tossicodipendenza, addestramenti paramilitari e, soprattutto, miseria.

In una parte dello stato – quella settentrionale, lontana dal Sud di True Detective – che è stata definita dal regista stesso come “il nuovo ghetto americano” (Repubblica.it, 2015), l’entusiasmo dell’ “era-Obama” cessa di scorrere e diventa pantano, terra sporca, ruggine, grasso, visi macchiati e aliti cattivi. Rivela quell’incubo che, forse, ha sempre finto di non essere, che dichiara se stesso nella penombra delle roulotte buttate fra gli alberi, nelle case senza riscaldamento d’inverno, negli sguardi esaltati dei partecipanti a raduni e battaglie posticce.

E nonostante tutto Mark chiede a Lisa di sposarlo, durante un bagno adamitico circondato dal verde, e Lisa si commuove di gioia come se il futuro desse la possibilità di provarne – mentre in realtà attorno non ci sono che anziani reduci spremuti come limoni e buttati come bucce, donne gravide che si bucano e ballano al palo, giovani che pensano ad auto-organizzarsi con bombe e fucili per ribellarsi al potere costituito. Uno scenario che Minervini s’impegna a restituire a costo di riprodurlo, non di rado valicando il sottile confine fra documento e cinema di finzione, per cui anche l’intimità sessuale più sincera appare come velata dall’ostinata ricerca dell’effetto poetico, quando non della corsa al sensazionalismo.

Questo insistere sui dettagli più intimi di un sistema di vite già di per sé evidentemente esposto alle contraddizioni, alla disperazione e, il più delle volte, a un destino tragico, è la pecca che crepa il disegno di un film politico altrimenti molto valido, perché capace di immortalare la ribellione delle creature americane al loro immenso e subdolo Doctor Frankenstein. Se per combattere la (voluta) indifferenza mediatica che ricopre il lato in ombra dell’America di Obama si colpisce ripetutamente lo spettatore allo stomaco o in pieno volto, quando un solo cazzotto di quell’inferno basterebbe a tramortire chiunque, il rischio è che lo spettatore stesso rimanga bloccato all’indiscutibile valore documentale dell’opera o, nei casi meno fortunati, che fugga a gambe levate da una tipologia di visione morbosa e ridondante. Una denuncia che, pur di urlare, rinuncia a scandire le sue stesse parole.

 

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