Il racconto dei racconti

Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)

Il racconto dei racconti: Basile secondo Garrone

Un giullare cammina per strada, macchia di colore sulla terra di uno dei tre regni dove Matteo Garrone ha scelto di ambientare la sua versione de Lo cunto de li cunti (o Pentamerone) del napoletano Giambattista Basile.

E così, sin dalla prima scena, Il racconto dei racconti dice una cosa fondamentale: che le fiabe non passano mai allo stesso modo in cui mai nasce e mai muore l’istinto degli uomini di raccontare storie per raccontare se stessi.

L’intermezzo teatrale, lo spettacolino agito dai saltimbanchi (guidati da Alba Rohrwacher e un Massimo Ceccherini insolitamente muto) offre la prima chiave di lettura per un’opera che a partire dalla sua struttura a episodi (quelli che già dall’epoca del Decamerone boccaccesco si definivano cornici) riprende e riporta in alto il gusto per la pura fascinazione dell’arte del narrare.

Fra quelle idee, perfettamente mimetizzate nelle vicende messe in scena, esistono infatti dei legami sia causali che concettuali che rappresentano il fulcro del “buon racconto“, il presupposto basilare per ascoltare e ripetere una storia con piacere.

Il regno delle storie

In tal modo è immediatamente chiara la ragione per cui la regina di Selvascura (Salma Hayek) rimane scossa – come lo fu a suo tempo il Re dell’Amleto shakespeariano – da un elemento della rappresentazione teatrale: la gravidanza della giocoliera.

La voglia ossessiva di avere un figlio la attanaglia al punto da toglierle il sorriso ed essiccarle l’amore nei confronti del marito (John C. Reilly) e del resto del mondo.

Ma, come spesso accade per il lato oscuro dell’umano, il pensiero magico giunge a dar conforto attraverso i consigli di un negromante (Franco Pistoni, ennesima prova del talento di Garrone nell’individuare i volti giusti, come estrapolandoli da un quadro fiammingo): l’ingestione della carne di un cuore di drago marino preparata da una vergine darà alla Regina la dolce attesa che attende.

A questo punto l’intreccio sale in superficie e i personaggi delle altre storie (che sono anche altri regni) “invadono il campo” di Selvascura: il vizioso sovrano di Roccaforte (Vincent Cassel), tormentato dal desiderio per un’anziana donna di cui ignora l’aspetto (ripugnante) ma che ha solo sentito cantare; il re di Altomonte (Toby Jones, bravissimo) padre di una giovane in età da marito (Viola, con la bellezza rinascimentale di Bebe Cave) che trascura per dare attenzioni alla sua pulce d’allevamento.

La vita è una fiaba spietata

Non c’è tono consolatorio che tenga, né dietro l’angolo né altrove, a cominciare dal testo di Basile per finire con la sua rilettura garroniana – che il regista stesso ha dichiarato di aver fatto evitando di operare aggiunte al testo di partenza.

Perché l’insegnamento schietto e tagliente della cultura napoletana, la rappresentazione cruda della vita e delle sue piccole grandi tragedie, sono lì, nudi come Stacy Martin dopo la sua rinascita (un po’ botticelliana e un po’ preraffaellita) nella foresta, senza pelle come l’anziana vittima della ýbris.

E mostrano la verità, e il sangue che riesce sempre a far scorrere parlando il linguaggio della fiaba spogliato del dialetto, prendendo il corpo anziché l’abito e ribadendo che un’opera come Lo cunto de li cunti non può che essere assolutamente universale.

Beate imperfezioni

Là dove le dissolvenze in nero (eccedenti) di Garrone separano, la bellezza delle immagini, dalla composizione (fotografia di Peter Suschitzky, scenografie di Dimitri Capuani) all’ambientazione paesaggistica, va a unire.

Ed è lo sfondo perfetto per le imperfezioni viventi (nonostante gli ottimi costumi di Massimo Cantini Parrini) degli uomini, di quei personaggi – come ricorda Lo spettatore indisciplinato – sentimentalmente menomati e, perciò, irrimediabilmente soli.

Almeno finché non ritrovano il cuore sotto le apparenze e le perle. Ché una cosa è certa: ne Il racconto dei racconti di Garrone i giullari sono più felici dei re. Basterebbe questo per farne un film fantastico, oltre che nel genere, anche nelle intenzioni. In realtà, basta già, e avanza pure. Fa tornare la voglia di rileggere, di riascoltare, di cominciare da capo, una, dieci, cento volte.

Francesca Fichera

Voto: 3.5/5

4 pensieri su “Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)

  1. Film bellissimo che avrei voluto rivedere da capo appena uscita dalla sala. Garrone conferma il suo notevole talento visivo (non che ce ne fosse bisogno!) oltre all’innegabile istinto nello scegliere il volto dei suoi attori (come dici, giustamente, tu).
    Storie tristissime perché parlano di desideri grandi destinati a scontrarsi con la rovina della realtà che non perdona e non fa sconti.
    Ho amato la forza del legame dei due gemelli albini di madre diverse e il loro continuo specchiarsi l’uno nel volto dell’altro (la scena di loro due in acqua è visivamente meravigliosa).

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    1. Anche tu sei rimasta stregata da quella scena, che bello! Un vero sogno acquatico, un’immersione in dipinti di tempi così lontani da sembrare inesistenti. Garrone, se non il migliore, è uno dei migliori: dopo questo film non ci piove proprio più!

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    1. Esatto, graffiante e implacabile: colpe e solitudini che si feriscono a vicenda imprigionate (come scrivevi) dall’incapacità affettiva.
      Quest’anno a Cannes e nel mondo siamo rappresentati egregiamente. :)
      p.s.: prego, sempre un piacere citare parole che rimangono dentro!

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