The Duke of Burgundy, la sensualità fuori dagli schemi.
Cosa significa avere un’identità nazionale quando si parla di cinema? Dove si trova oggi una vera identità nazionale, per esempio, nel cinema italiano? Vedendo i lavori di Peter Strickland, regista di The Duke of Burgundy, e, ad esempio, del duo Bruno Forzani/Hélène Cattet, ci si chiede perché ad oggi gli unici a portare avanti un’idea di cinema di genere italiano fortemente ancorata alla tradizione e ai modelli del passato siano dei registi non italiani. Un’estetica, quella resa nota al mondo intero da Storaro e Argento, ancora oggi considerata da buona parte del pubblico e dei critici nostrani appartenente ad una seconda categoria del cinema, cosiddetta serie B.
Peter Strickland, che già nell’ottimo Berberian Sound Studio raccontava di un tecnico del suono a lavoro in una produzione horror italiana degli anni Settanta, è l’esempio più chiaro di quanto mitica, unica e affascinante appaia agli occhi degli spettatori stranieri quella stagione del cinema di genere italiano. The Duke of Burgundy in questo senso decide di proseguire il discorso del film precedente, pur arricchendolo e ampliandolo notevolmente con suggestioni provenienti dal cinema erotico di Sexploitation di Jesús Franco.
È una via di mezzo, quella di Strickland, tra l’omaggio diretto e la semplice appropriazione di un linguaggio datato (che però ha il fascino di un’epoca stampato addosso) per portare avanti un discorso totalmente originale e personale.
Quella di Evelyn (l’italiana Chiara D’Anna) e Cynthia (la danese Sidse Babett Knudsen) è infatti una vera storia d’amore al femminile (di uomini, nel film non ce ne sono) che si manifesta attraverso un rapporto di dominazione a tinte sadomasochiste. Il contesto, quello di un tranquillo e isolato borgo della campagna inglese, è quanto mai insolito. Le due donne, ricchissime conviventi in un’immensa villa del XIX secolo, sfuggono alla noia e alla monotonia di una vita priva di stimoli e di solo benessere. Per questo il sesso, il feticismo, la perversione, sembrano rappresentare l’unica possibile via di fuga.
Uno strano gioco di ruolo, il loro, che pare più una strategia di sopravvivenza all’interno di un microcosmo isolato da tutto e da tutti. Un modo per tenere viva l’asticella del desiderio, per non dare spazio all’abitudine, alla noia di una vita borghese costretta a riflettersi eternamente su se stessa.
Peter Strickland, che ha incredibilmente girato il film in soli 23 giorni, gioca con l’architettura della casa, rivelandone anfratti sempre diversi ed evolvendone di volta in volta la prospettiva. Forte del contributo di Nicholas Knowland, già direttore della fotografia di Berberian Sound Studio oltre che del leggendario film sui Sex Pistols The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, il film regala, fin dai meravigliosi titoli di testa sotto la splendida colonna sonora dei Cat’s Eyes, un comparto visivo sorprendente che, nel suo assumere tinte oniriche e visionarie, non può non ricordare lo stile di Argento nei suoi tempi migliori.
Strickland, lontano dal voler creare una pellicola sexy (non c’è una sola scena di nudo nel film) si diverte con le sue protagoniste facendo del loro gioco quotidiano un qualcosa di quasi comico e tenero. Analizzando il rapporto tra amore e perversione The Duke of Burgundy ha infatti il pregio raro di rapportarsi con sensibilità e delicatezza ad una tematica che avrebbe potuto facilmente sfociare nel voyeurismo puro.
Questo ormai marchio di fabbrica di Strickland di rifiutare totalmente uno sviluppo del terzo atto che dia una soddisfazione narrativa vera ai suoi spettatori lo si può accettare o meno, ma di certo non si può biasimare un nuovo autore come lui di aver trovato la sua voce e la sua cifra stilistica inimitabile in un oceano di banalità e finte novità. Lontano da ogni stereotipo, The Duke of Burgundy è tutto ciò a cui vogliamo che assomiglino il cinema e gli autori dei nostri tempi.