di Arturo Caciotti.
Goteborg. Da un museo di uccelli impagliati a strani discorsi ad una fermata del bus, una lunghissima serie di situazioni, momenti e dialoghi che raccontano l’esistenza (o non-esistenza) dell’uomo medio.
L’uomo moderno vive o non vive? Roy Andersson sbarca al Lido con A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence e prova a spiegarcelo, con una serie di episodi che indagano piccoli frammenti del quotidiano con uno sguardo sopra le righe che prova ad esaltare, attraverso il gioco dell’assurdo, l’anima più profonda dell’insensatezza della comunicazione nel mondo attuale. Sia i dialoghi e le azioni dei personaggi, che lo stile di messa in scena, portano tutti gli elementi del film a costruire un universo nonsense dove i rapporti sociali sono fatti di parole inutili e azioni così superflue e automatizzate da raggiungere codici comportamentali completamente folli e paradossali.
Il film è un’autentica perla, articolata in tantissime inquadrature fisse (ogni episodio si svolge in un unico piano di ripresa) che suddividono l’immagine con studiatissima geometria, sfruttando un’eccezionale profondità di campo, un coordinamento perfetto tra gli attori e un geniale senso di interazione tra il movimento (dei personaggi) e la stasi (della camera).
Andersson dona ad ogni inquadratura un senso prevalente di immobilità, spinto talvolta fino all’esasperazione e per questo assimilabile ad un dipinto (il regista afferma di ispirarsi a Pieter Bruegel ed Edward Hopper), ma è capace anche di rompere con questa tendenza in eccezionali momenti di azione, come quando vediamo irrompere un soldato ottocentesco a cavallo, con spada sguainata, in un bar di periferia, con tanto di guardie che gli aprono la porta. C’è, come avrete capito, anche un’idea di uno sviluppo narrativo senza tempo, con interazioni tra personaggi di varie epoche, accomunati dal luogo dove si trovano, che è sempre Goteborg.
Per quanto possa sembrare strano dopo aver letto le righe precedenti, il film è divertentissimo, colmo di un’ironia fredda e assurda tipica scandinava, che va da toni più leggeri a tocchi di humour nero al limite del disturbante. I tipi più caratteristici dei vari siparietti si incrociano e rincontrano durante la visione, ma c’è anche chi ha a disposizione pochi secondi sullo schermo, e sono i momenti dove l’istinto puramente artitico di Andersson si rivela di più, specialmente quando vediamo un uomo fumare ad una finestra, raggiunto da una bella donna con una maglietta semitrasparente (tipica di dipinti rinascimentali e del Seicento) che viene incorniciata dal vetro opaco della finestra come in un quadro: meraviglioso.
Durante la visione non vediamo mai personaggi davvero felici o davvero tristi, ogni cosa è avvolta da una sorta di vago disinteresse per il proprio destino e da un sentimento di perpetua insoddisfazione e malinconia: gioia e dolore sono fuori dalla scena (spesso i personaggi parlano al telefono e dicono: mi fa piacere che le cose ti vadano bene) o fuori dalla zona nevralgica dell’inquadratura (per esempio, dietro la vetrata di un ristorante dove i clienti piangono o ridono di gusto..), come se non fosse un privilegio dei nostri protagonisti di sperimentare le passioni.
Con una fotografia algida e chiara (firmata da István Borbás, Gergely Pálos), supportata dai volti degli attori truccati di bianco, Andersson ci racconta l’assurdità inevitabile della condizione del limbo della piccola (o piccolissima) borghesia, senza rabbia sociale o inutili provocazioni, ma con quel brillante senso di osservazione che raffigurava con la stessa idiozia i personaggi di En Karlekshistoria, che si riempivano il corpo con litri di dopobarba mentre davano della scema alla moglie.
Speriamo e sogniamo tutti un giusto e meritato Leone d’Oro.