di Arturo Caciotti.
In una nazione qualsiasi, una delle tante vessate da un crudele dittatore, scoppia la rivolta: c’è un colpo di stato, il Presidente è costretto a fuggire, col nipote erede alla carica, per le campagne del proprio paese, fingendosi pastore e poveraccio. Intanto i rivoltosi lo cercano rabbiosamente, e pretendono la sua testa.
Sua Maestà (Misha Gomiashvili) e il piccolo erede (Dachi Orvelashvili) sono nel loro sontuoso palazzo. Dall’alto di un grande ufficio a vetrata, guardano la città. Telefono in mano, basta un ordine e tutte le luci della città, tranne quella dell’ufficio, si spengono immediatamente. Sua Maestà fa provare anche al nipote, che, divertito come da un gioco, ordina: Accendete le luci! Spengete le luci! Accendete le luci! Spengete le luci! Accendete le luci.. ma tutto rimane avvolto nell’oscurità, gli ordini sono stati ignorati: la rivoluzione ha inizio.
È solo l’incipit di The President, ma è già un frammento di grande cinema e, forse, in assoluto il momento migliore del film.
Il declino dei giganti, degli dei, è un tema da sempre caro al cinema, e il film di Mohsen Makhmalbaf si inserisce senza dubbio in questo solco dal sentore sì viscontiano, ma con caratteristiche e messa in scena ben distanti: si inizia giostrando su un meraviglioso registro iperrealista con picchi grotteschi che ironizza diabolicamente sulla meccanica dei rapporti interni in una famiglia reale, il confronto con la servitù e i sottoposti, per poi evolversi in un traumatico impatto con la realtà rabbiosa del popolo troppo a lungo vessato e infine sciogliersi nella dolorosa cronaca di una fuga all’interno del proprio paese: purtroppo le parti migliori del film sono proprio le prime due, in cui il racconto in qualche modo storico (è una storia inventata, ma simile a tante reali rivoluzioni civili) è messo in scena con una prospettiva originale e sopra le righe prima, brutale e coinvolgente poi.
Quando la pellicola si addentra poi nella narrazione dell’odissea del Presidente e del piccolo, ingenuo e candido erede (già macchiato, dunque, alla nascita, di un crimine che non ha mai commesso), perdiamo un po’ il filo del discorso, e assistiamo ad una disavventura segnata da un rapporto tra i due che ricorda vagamente i giochi di Benigni de La vita è bella, in una interessante ma non del tutto realizzata analisi del lato umano del carnefice. Se questi non viene comunque assolto nello svolgersi del film, certamente si va a meritare un briciolo di compassione del pubblico quando la sua crescita interiore lo porta ad assistere, curare e proteggere gli stessi uomini che aveva condannato alla tortura, alla disperata ricerca di una catartica redenzione.
Sul finale, tirato un po’ per le lunghe, c’è una triste elegia al destino umano, costretto per sua stessa natura alla ricerca del conflitto e della propria autoaffermazione sovrastando l’altro, che sia per senso di rivalsa che per brama di potere: non del tutto convincente, ma intriso di un pathos che non potrà lasciare indifferenti.
Insomma, The President è un film più che buono, orchestrato da una regia lucida ma anche assai creativa, capace di partecipare all’inquadratura donando spessore drammatico ma anche di astrarsi e lasciare i personaggi in balìa della storia, in una fredda solitudine che colpisce lo spettatore. Bravi gli attori, soprattutto il giovanissimo co-protagonista Orvelashvili.
Un appunto? Va bene la sospensione dell’incredulità, ma che con una parrucca bianca e vestiti stracciati il terribile dittatore non sia più riconoscibile da (quasi) nessuno dei cittadini, è difficilmente credibile.