di Arturo Caciotti.
In Indonesia, tra il ’65 e il ’66, un’atroce purga dei paramilitari arrestò e giustiziò un milione di comunisti o presunti tali. Dopo The Act of Killing, Joshua Oppenheimer torna con The Look of Silence a parlarci del massacro di tanti innocenti, stavolta dal punto di vista delle vittime, o meglio, del fratello minore di una vittima che parla con i carnefici e cerca un qualche barlume di rimorso nei loro atteggiamenti.
Joshua Oppenheimer era riuscito a raccontarci di un genocidio attraverso le parole degli assassini, dimenticando ogni partecipazione, sottolineatura musicale o giudizio, e ci aveva lasciati sconvolti di fronte alla terrificante freddezza e oggettività di aguzzini che rimettevano in scena, divertiti, gli stessi orribili atti che avevano compiuto cinquant’anni prima. Adesso, se possibile, ci coinvolge ancora di più, e lo fa a modo suo: escludendo il coinvolgimento. Il regista americano ha capito che in documentari di questo tipo, che riportano alla memorie simili tragedie, ogni enfatizzazione è, oltre che di dubbio gusto, assolutamente avversa ad una reazione davvero potente e umana del pubblico.
La musica, il compatimento e il pathos forzato sono sovrastrutture che distruggono l’agghiacciante orrore della naturalezza con cui l’uomo può massacrare i propri simili, e lo trasformano in uno spettacolo esibizionista che si allontanerebbe dalla realtà, per abbracciare la compiaciuta partecipazione ad un dolore che non dovrebbe in nessun caso trovare catartiche vie di fuga ed esorcizzazioni partecipative. Come l’Indonesia vuole sminuire o dimenticare questi fatti sanguinosi, come qualunque dissidente è stato brutalmente messo a tacere, come la gente guarda ancora sospettosa i familiari dei comunisti senza Dio e ammutolisce al loro passaggio, così deve svolgersi la narrazione del film: nel silenzio, il più struggente e violentemente realistico segnale di solitudine e disfatta del genere umano.
Come per The Act of Killing, Oppenheimer dimostra di amare la gente e le persone, e trasforma la cronaca in cinema con i suoi dettagli, i suoi primi piani e le sue delicatissime inquadrature fisse, con uno studio della luce più preciso e drammaturgico del precedente film ma non per questo arbitrario, invadente o banalmente enfatizzante. È un cinema bello, umano tanto nel calore dei corpi che nella terribile freddezza delle parole, un cinema che nonostante tutto richiama alla vita.
Sarebbe ora inutile soffermarsi troppo sull’analisi dell’elaborazione del dolore che il protagonista di The Look of Silence sviluppa nell’incontrare i criminali legalizzati che hanno assassinato il fratello, così come sull’assurda testardaggine di crudeli esecutori che non vogliono mai sentirsi pentiti o moralmente responsabili di quello che hanno fatto: bisogna lasciar parlare il film, che è commovente e durissimo, e che non potrà non conquistare e travolgere lo spettatore. La parola alle immagini, e che tutti possano godere di questo eccezionale prodotto che va oltre il documentario, e forse oltre il cinema stesso.