Birdman, l’imprevedibile virtù del meta-cinema.
C’era una volta Birdman, un supereoe da cinecomic anni ’80-’90, il suo stuolo di fan e la gloria della celebrità. Ma nei Duemila, epoca dominata da centinaia di colorate e goffe epigoni di quell’incredibile uomo alato, in una folle rincorsa all’eccesso visivo e muscolare, Birdman è tornato ad essere un povero mortale: è Riggan Thomson/Michael Keaton, attore attempato ma testardo che ha scelto la rischiosa via del teatro e, con uno spettacolo da lui diretto e interpretato, si è tuffato nel crudele mondo di Broadway.
Girato in un piano sequenza continuo che scandisce la quasi totalità della pellicola, Birdman è un film dallo spiccato acume meta-cinematografico, capace non solo di dipingere con grande lucidità lo strambo affresco di un’era dove spettacolo e realtà si fondono e si mescolano senza percepibili soluzioni di continuità, ma anche di analizzare, attraverso il sogno e i ritratti grotteschi, l’irrisolvibile questione che divide l’atto artistico dalla sua conseguenza pubblica: la fama.
Alejandro González Iñárritu è infatti bravissimo nel costruire una pellicola in costante equilibrio tra follia onirica e straripante energia primordiale, alternando un registro dai toni al limite del surrealismo e un basso dialogo di corpi, carni e menti che si confrontano e si azzannano.
E allora Mike/Edward Norton (l’attore co-protagonista assunto da Riggan per lo spettacolo) è un folle stanilavskiano che riesce ad avere erezioni solo sul palco (l’unico momento in cui dice la verità), la terribile giornalista (Lindsay Duncan) del New York Times vorrà stroncare lo spettacolo per umiliare Riggan e tutto ciò che questi, eroe fumettistico, rappresenta, mentre il nostro protagonista dovrà costantemente combattere tra i suoi nuovi orizzonti autoriali e quella vociona che rimbomba nella sua testa e che lo esorta a riprendere becco e penne, per solcare di nuovo i cieli dell’immortalità.
E se il piano sequenza di Iñarritu è geniale nel suo ignorare e prendere in giro ogni credibilità spazio-temporale, in un continuo e dolce fluttuare di macchina da presa contrapposto alla frenesia dei corpi attoriali, gli interpreti trascinano con forza irresistibile lo spettatore in un vortice di anarchia dialettica e fisica: il film ha un ritmo totalmente travolgente, ed è impossibile staccare gli occhi dallo schermo.
Una menzione necessaria va riservata anche alla colonna sonora, scarna di melodie e formata, per lo più, da incostanti, piccoli (e molto tribali) crescendo di batteria, in una rincorsa tra percussione e azione recitativa che culmina in brevi e arguti inserimenti dello strumento stesso suonato all’interno delle scene, trasformando così la soundtrack di fondo in elemento interno alla visione.
Una bellissima fotografia ben satura di colori e effetti visivi accattivanti e tante citazioni, piccole e grandi, dal lynchano bacio lesbo tra Naomi Watts e una nuova bella mora, al divertentissimo parallelo tra Birdman e i due Batman di Tim Burton, opere il cui personaggio elevò la carriera proprio di Michael Keaton, passando per un Norton spaccone come spesso lo abbiamo visto al cinema.
È tutto ciò a cui Iñarritu non ci aveva abituato nella sua carriera registica, ma ben venga questo nuovo aspetto della sua poetica.
Allora, può esistere un’arte davvero aderente alla realtà, o alla verità, senza sovrastrutture né ripercussioni socio-culturali? Per quanto senza soluzione, è un quesito che ci affascinerà sempre, e un film riesce a porcelo con il linguaggio dell’intrattenimento, noi ce lo godiamo.
Arturo Caciotti
Voto: 3.5/5
Un pensiero su “Birdman (Alejandro González Iñárritu, 2014)”
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