Guardate almeno una volta La casa dalle finestre che ridono.
Immagini color seppia, un omicidio e una voce che recita un’inquietante poesia sulla morte e la purificazione. È così che ha inizio La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, una delle aperture più inquietanti che la cinematografia nostrana ci abbia mai regalato.
Cronologicamente siamo ad un anno da quel capolavoro che era Profondo Rosso di Dario Argento e l’emiliano Pupi Avati, con un budget di circa 120 milioni di lire, realizza il suo secondo horror in carriera dopo l’esordio Balsamus, l’uomo di Satana del 1970.
In seguito al fallimento del suo precedente Bordella (1976) nessuno avrebbe mai immaginato che La casa dalle finestre che ridono potesse diventare un cult, che Pupi Avati avrebbe potuto avere un posto tra i maestri dell’horror nostrano. Peccato che, purtroppo, dopo questa pellicola Avati abbia virato su tutt’altro genere, ritornando all’horror nel 1983 con Zeder, nel 1996 con L’arcano incantatore e nel 2007 con Il nascondiglio.
La casa dalle finestre che ridono è una storia sul silenzio e l’omertà. Ciò che trova il protagonista Stefano (Lino Capolicchio) nel paesino sperduto della pianura padana è una landa desolata dove gli abitanti son pochi e non parlano. Stefano è un restauratore ed è arrivato in questa campagna per lavorare sul San Sebastiano di Bruno Legnani, pittore famoso perché dipingeva i suoi soggetti nel momento della loro morte e, per questo, definito il pittore delle agonie.
Ed è così che la poesia che si sente nei titoli di apertura de La casa dalle finestre che ridono diventa protagonista e ossessione dell’intera pellicola, colei da cui si trarranno tutti i pezzi dell’angosciante puzzle che accumula nuovi tasselli di verità.
Proprio nel momento in cui il quadro inizia a scoprirsi entrano in gioco il silenzio e l’omertà.
Stefano vuole sapere di più sull’opera e sulla sua storia ma deve fronteggiare la diffidenza degli abitanti che sembrano saper molto del Legnani e però preferiscono il quieto vivere, a partire dalle forze dell’ordine.
Riceve delle minacce al telefono e lo stesso prete della chiesetta in cui il quadro è presente non sembra intenzionato a far completare il restauro e l’unico su cui Stefano potrà fare affidamento è Coppola (Gianni Cavina), un ubriacone e il solo a voler parlare col protagonista.
Attorno a Stefano inizia a morire gente in circostanze misteriose: stranamente a morire sono proprio coloro che hanno parlato. Sembra che il Coppola venga risparmiato perché nessuno potrebbe mai credere alla storia di un ubriacone.
La casa dalle finestre che ridono è la casa dove il Legnani portava i suoi soggetti per dipingerli e le celebri finestre sono state disegnate dal fratello di Pupi Avati a mano. La sceneggiatura di questo progetto, tenuta nel cassetto per ben cinque anni, andò nelle mani di Maurizio Costanzo che riuscì a convincere Avati a mandarla avanti.
Per scelta i dialoghi sono pochi e molto superficiali, anche il tema amoroso tra Stefano e Francesca (Francesca Marciano) è sviluppato poco, tutto a favore di una tensione crescente che esplode negli ultimi quindici minuti di pura follia totalmente inaspettata. Capolavoro.
Oltre alle interpretazioni non proprio all’altezza (a parte Cavina) ciò che si potrebbe dire del film è che non è invecchiato benissimo a causa del ritmo lento, che per i giovani d’oggi, abituati a ritmi frenetici, sangue e frattaglie, non è proprio il massimo della vita. Ma resta che La casa dalle finestre che ridono è una pietra miliare, un capolavoro del cinema horror italiano che ognuno dovrebbe vedere almeno una volta prima di morire.
See You Soon.