Salaam Bombay! - CineFatti

Salaam Bombay! (Mira Nair, 1988)

Salaam Bombay! dissero i figli dell’India.

Per apprezzare pienamente Salaam Bombay! è opportuno togliersi certi alambicchi culturali occidentali dalla testa, perché la forza primitiva di questo film del 1988 che ha sfiorato l’Oscar e ha trionfato a Cannes è il saper testimoniare la sfrontata e terribile dolcezza dell’India, quella contraddizione che può esser solo sentita nel subcontinente (ed invero è sempre più fraintesa) che si può amare od odiare e i locali riassumono con lo slogan Incredible India! pronunciato in occasioni di ogni controversia quale giustificazione estetica dei tanti pratici problemi negli ingranaggi macchinosi di un paese di oltre un miliardo di abitanti mosso da un’anarchia contagiosa, ancora più indomita se depositata nell’anima di una delle metropoli più estese del mondo, la luccicante e infernale Bombay (ed oggi Mumbai) eternamente simbolizzata dal contrasto tra l’affascinante Marina Drive del capolavoro di Bollywood Deewar e l’infame slam di Dharavi.

Erede della grande scuola neorealista, il capolavoro di Mira Nair è frutto di un lungo studio sul campo. A Cannes la regista dichiarò di aver voluto celebrare lo spirito di sopravvivenza dei bambini delle strade di Bombay a cui il film è dedicato. E Salaam Bombay! nasce da un attento lavoro di ricerca ispirato dagli stessi bambini che recitano nel film (l’idea venne alla regista su un taxi, circondata da una tribù di ragazzini), che una volta raccolti nelle strade di Mumbai hanno guidato la Nair, di ceto medio, ad avvicinarsi a un mondo che le aveva sempre vissuto accanto con strepitosa energia e indicibile dignità nonostante difficoltà quotidiane inimmaginabili e una povertà congenita. Tuttavia, per quel miracolo spirituale dell’anima indiana tale povertà materiale raramente sfocia nella miseria ed è questa la tematica principale della pellicola..

Tra questi bambini spicca il protagonista Shafid Syed, volto che s’imprime nell’immaginario di un continente intero, che a dieci anni perde accidentalmente lavoro e famiglia e raggiunge da solo e senza un soldo Bombay, che ne inghiottirà la fanciullezza insieme a quella di centinaia di migliaia di altri bambini, mentre lui cerca di guadagnare 500 rupie (a oggi poco più di 7 euro) per tornare dalla madre. È lì che diventa chaipu (portatore di tè) e che incontra una rosa in una fogna, la baby prostituta Manju, di cui s’invaghisce, comune corollario suburbano del luogo, tra anime misteriosamente ancora limpide sebbene immersi in un ambiente di sfruttatori dolenti e cinici nella comune e bieca lotta per la sopravvivenza.

Tutto si aggiusterà, un giorno tutto sarà perfetto in questa India è l’auspicio consapevolmente impossibile di un film colmo di stupore per quella massa di bambini gioiosi abitati dalla sventura, ma che vive della loro stessa semplicità di sguardo, privo di sovrastrutture metaforiche, selvaggio e sempre sul filo tra mera e briosa rappresentazione e dramma che non sfiora mai il patetico né vibra dell’abusata dialettica sofferenza-redenzione (cardine dell’operato di Madre Teresa di Calcutta e spettacolarizzata ne La città della gioia).

Salaam Bombay! è un film raro per lo stesso cinema indiano, di cui ci arrivano invece macchiette esportabili alla Millionare, mentre siamo al cospetto dello Sciuscià indiano. Tuttavia la profondità nella contemplazione dei suoi soggetti è tale da lasciare inevasa qualsiasi soluzione per la situazione di tanti bambini indiani, sublimato da un primo piano finale indimenticabile e che racchiude tutta la profonda poesia di ogni bambino indiano evocato e la contraddizione di un paese che o si ama così com’è o lo si aiuta per ciò che potrebbe essere e non sarà comunque mai.

Luca Buonaguidi

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