Il processo alle streghe diventa un capolavoro
Se cè una cosa che abbiamo imparato grazie (anche) a Dragonheart di Rob Cohen è che l’uomo teme a volte più per la salvezza della sua anima che per la putrefazione del suo corpo privo di vita. È ovviamente una questione di punti di vista, c’è chi teme che la Fine possa portar via con sé l’onore ancora macchiato dalle ingiustizie commesse in vita e chi invece ha paura di un Male superiore che possa dannare anche l’immortale per l’eternità finché la morte stessa non muoia (Lovecraft dixit).
Lo spettacolo di Arthur Miller, The Crucible, in Italia tradotto come La seduzione del male, è l’opera definitiva sulla paura. Dal teatro al cinema ci è passato due volte, la prima per mano di Raymond Rouleau, la seconda grazie all’autore del bellissimo La pazzia di Re Giorgio, Nicholas Hytner. La storia di questa particolare caccia al maligno è nota solo per nome a tanti, una delle innumerevoli macchie sulla storia nord americana: il processo alle streghe di Salem, Massachusetts, alla fine del Seicento.
Storia di una bugia dalle gambe lunghe
Restando abbastanza fedele ai fatti storici, Miller scrive del dilagare di una menzogna. Dalle ragazze della cittadina, capitanate dalla gelosa Abigail Williams (Winona Ryder), si sparge la voce della presenza del diavolo a Salem, oscuro signore che avrebbe infettato i corpi delle giovani per corrompere quella sacra terra devota al Dio dei cristiani.
Un risvolto nato come un sussurro e un timore da parte di chi nella sua personale follia era convinto che Satana in persona dannasse la sua vita, una menzogna annidatasi nelle piaghe aperte dalla paura di tutte quelle persone troppo spaventate per potersi rintanare sotto le larghe e giuste spalle della sacrosanta verità.
Il protagonista è il brav’uomo John Proctor (Daniel Day-Lewis), fedele a se stesso e al suo onore al punto da arrivare a macchiarlo pubblicamente pur di salvare la dignità di sua moglie e la vita dei suoi amici. Un dramma incalzante che vede non il bene contro il male, ma la giustizia contro la falsità e le malelingue, contro gli imbroglioni e chi il sangue lo beve per rimpinzarsi piuttosto che per far fatture.
Metafora contemporanea per quella società che punta il dito contro forze esterne per non indicare chi davvero è il colpevole, per quei popoli che ancora oggi credono negli spauracchi e nei capri espiatori piuttosto che nei fatti
Dal palcoscenico al primo piano
Nicholas Hytner dirige La seduzione del male seguendone i personaggi, talvolta impersonando il diavolo con la macchina da presa, un movimento d’aria spaventato da chi ingiustamente lo espone come imputato, ma più di tutto a far da padrone sono i primi piani. Dalla gelida Ryder, prima svergognata, poi santa e poi demonio, dal buon Day-Lewis all’ancora migliore Joan Allen (Elizabeth Proctor).
Le sensazione degli uomini e delle donne in piedi di fronte alle luci naturali di Andrew Dunn sono manifestate in numerose azioni e reazioni del volto che riempiono buona parte dei quadri de La seduzione del male, diventata col volto dei protagonisti una storia del tutto cinematografica, distanziatasi dalla sua origine teatrale.
La regia sottolinea chi è stato sedotto e chi si è abbandonato invece al grido del “Dio è morto!” e senza timidezza aggira la lacrima facile e dà peso alla storia d’amore tra un marito e una moglie in poche scene di commovente sincerità.
Tutto il resto è il classico e perfetto esempio di film rigido e corretto nella rappresentazione di uno spazio storico e temporale ben definito, preciso fin nel dettaglio delle placche sui denti e dei panni sporchi, dalla paglia alla pelle spessa di chi lavora sui campi giorno e notte. Un lavoro portato a compimento con precisa passione da un regista che sa come trattare il palco cinematografico e non solo quello teatrale.
Fausto Vernazzani
Voto: 5/5
Un pensiero su “La seduzione del male (Nicholas Hytner, 1996)”