di Francesca Fichera.
Ci sono film che pur mettendo in scena il male del mondo sono capaci di farti sentire in pace con esso. Le tre sepolture di Tommy Lee Jones è uno di questi. Suo è uno splendido esempio di riscrittura contemporanea del genere western: crudezza e lucida passione le parole utilizzate, spesso fra le righe, in nome di quella velatura del significato complessivo che a quest’ultimo dona pregnanza, imponenza, senso dell’universale.
Nel pellegrinaggio esistenziale de Le tre sepolture, a cavallo del confine fra due mondi – gli Stati Uniti e il Messico – come fra due idee – la sostanza e l’apparenza -, la linearità è un concetto da ricomporre, da ricostruire, un sentiero nascosto dalla logica poetica dello sceneggiatore Guillermo Arriaga (braccio destro di Inarritu) e restituita allo schermo dalla regia di T. L. Jones in forma di discreto suggerimento. Che a un primo sguardo potrebbe apparire in netto contrasto con l’evidenza – un body of evidence in senso letterale, un cadavere – rappresentata dai corpi umani, dal loro soffrire, deperire, farsi in pezzi. Ma che, alla fine, risulta esserne la parte complementare. Come in una sorta di lunga allegoria della modernità, allegoria di un’agonia al cui dolore si può sfuggire in soli due modi: andando o lasciandosi andare.
Statuario protagonista oltre che narratore dalla mdp affilata, T. L. Jones prende ed incarna la seconda delle vie proposte dalla vita e dal suo racconto. Ma quella da lui scelta è solo un’opzione derivata dallo sbocco attraverso il quale ha deciso di cominciare (e continuare) il suo cammino: la strada impervia dei sentimenti, del vivere in un totale prostrarsi alla loro cura e al loro rispetto, come seguendo un culto. L’amico Melquiades (Julio Cedillo), l’unico in grado di regalargli la verità di un sogno in una realtà talmente arida da esser divenuta falsa, è l’ideale per cui divampa la voglia di giustizia, scintilla a un desiderio distruttivo di lotta e di rivalsa. A quell’intimo sognare, che negli anfratti di una società annoiata dalla perversione sembra non trovar più posto, Perkins/Jones vuole offrire almeno il dono di un riposo giusto. L’ultima delle tre sepolture, di quei tre capitoli che compongono una polverosa, cinica riduzione del Delitto e castigo dostoevskijano, non di rado facente richiamo all’epica di genere de Il Grinta.
Mike Norton (un efficace Barry Pepper) è uno dei simboli collaterali alla personificazione morale di Jones: è la colpa che fa da motore alla rinascita. Paga il pegno corporale ma non quello del cuore. Tutti attorno, gli altri significanti dell’illusione perpetrata dal reale: secondario – ma solo in termini di ruolo nell’economia della storia – quello della “libertina di paese”, interpretata da una sempre brava Melissa Leo. Sono loro il vero preludio allo svelamento del dramma, di quella tragedia in tre atti che Le tre sepolture porta a compimento lasciando senza speranza alcuna chi v’assiste. E, forse proprio per questo, spingendo all’invenzione del coraggio, alla sua costruzione, come di un altare colmo di fiori, anche lì dove non potrebbe crescere nient’altro che sterpaglia.
è una splendida ballata folk,ha l’incedere dei grandi classici.Monumentale Jones,davvero. La scena con il vecchio cieco è intensa e per nulla banale
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Quella scena commuove forse più del finale (straordinario). Ma in una maniera sottile, che si scrolla di dosso il melodramma.
L’impostazione d’insieme ha più d’un’affinità con il True Grit dei Coen.
Che io ho amato particolarmente, soprattutto per aver restituito un tono epico (“l’incedere dei grandi classici”, appunto) a un genere eccessivamente parodiato, saccheggiato e mercificato.
Siamo sempre old inside, del resto :)
– Fran
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perchè comprendiamo che la tradizione non è un peso superfluo,o un’accozzaglia di robe reazionarie,ma le radici comuni ,le narrazioni universali. Poi non dimentichiamolo:l’innovazione , se non è sterile moda,diverrà ella stessa con il tempo tradizione
Per questo amo questi film
Old inside forever!
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