Non Aprite Quella Porta 3D (John Luessenhop, 2013)

Non aprite quella porta 3D: la dimensione del disastro – di Roberto Manuel Palo.

Il film si apre con il riassunto delle vicende di Newt, Texas, della storica pellicola di Tobe Hooper del 1974. Veniamo così a scoprire che, dopo i titoli di coda del film sulla fuga dell’unica sopravvissuta Sally (Marilyn Burns) dalle grinfie della famiglia Sawyer, la stessa fu sterminata dagli abitanti della cittadina, risparmiando solo una bambina.

Passano un po’ di anni e la bambina, ormai adulta, Heather (Alexandra Daddario) vive a parecchi chilometri di distanza dal luogo della strage e viene a scoprire che sua nonna le ha lasciato in eredità proprio la casa dei Sawyer a Newt. Intenzionata a scoprire la sua vera identità, Heather ritornerà nel Texas in compagnia del suo fidanzato e di altri due amici. Scoprirà ben presto che non fu l’unica sopravvissuta del massacro. 

Una porta da chiudere

Sono quarant’anni, ormai, che intimano di non aprire quella benedetta porta ma, puntualmente, qualcuno la apre e noi non ne possiamo più. Basta, si tratta di essere stupidi! Ve l’hanno detto una volta, e due, e tre, e quattro, vi hanno ripetuto il concetto altre due volte recentemente, dateci un taglio! 

Non è difficile non aprire una porta, basta chiudere con la chiave e buttarla nella Fossa delle Marianne. E invece no! Per la settima volta la porta si riapre, ma questa volta in tre dimensioni. L’inutilità del 3D nella pellicola di John Luessenhop è pari alla rabbia che lo spettatore ha quando capisce che ha speso dieci euro per vedere questa immane cavolata. Se il film si fosse intitolato Non aprite quella porta, cretini… avrebbe avuto più senso.

Non mi permetto neanche di parlare di tecnica registica, di fotografia, di recitazione o di scenografia per Non aprite quella porta 3D, sarebbe un oltraggio troppo grande anche per Uwe Boll. Potrei compensare dicendo che questo regista dallo strano cognome è alla sua seconda “opera” dopo Takers, un insulso film d’azione e sparatorie con Matt Dillon.

La sceneggiatura di questa nuova porta che si apre, a cura di Adam Marcus e Debra Sullivan è qualcosa di raccapricciante, specie nel tentativo di “umanizzazione” della famiglia Sawyer e, in particolare, di Leatherface che, in quaranta anni di storia, forse, era l’unica cosa che i fan della pellicola non volevano: i Sawyer, ormai, erano diventati, per la loro brutalità, quasi dei beniamini per gli adolescenti brufolosi e per i nostalgici. 

Una carcassa spiaccicata

L’unica cosa che posso supporre è che questa pellicola è stata fatta per semplice intrattenimento: attori cani, scene idiote, tette e culi al vento, un po’ di sangue sparso qua e là e quell’animale che sta ancora spiaccicato su quella strada dal 1974. Eh, sì, avete capito bene: vi ricordate, all’inizio del film di Hooper che il gruppo di giovani sfreccia con il loro camioncino e Hooper riprese un animale morto sul ciglio della strada? Bene, quarant’anni dopo è rimasto lì e nessuno l’ha smosso. Il fatto curioso è che non si è neanche decomposto.

Molte scene sono riciclate dall’originale, compresa quella della vittima appesa al gancio o la ripresa dal basso della scalinata. Allora vi chiedo: se per quarant’anni vi propinano sempre la stessa solfa, voi vi divertite o vi annoiate?

Per non parlare dell’assenza totale di tensione e, soprattutto, della paura. Non aprite quella porta 3D è talmente poco spaventoso che manca soltanto, Fabio De Luigi che imita Carlo Lucarelli cdicendo: “Paura, eh?” e, subito dopo, appare Giacomo Poretti, vestito da poliziotto, che dice: “Ci stiamo cacando addosso”, con Giovanni Storti che risponde: “Cosa?”.

Vi consiglio questo film solo se avete voglia di farla finita con la vostra esistenza. Altrimenti risparmiate questi dieci euro o andatevi a vedere Il principe abusivo che è meglio e risparmiate, se ritenete Anna Karenina troppo intellettuale per voi.

See You Soon.

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