BERLINO63: Layla Fourie (Pia Marais, 2013)

di Francesca Fichera.

Ci sono film per i quali non val la pena di spendere parole, perché già troppo è stato il tempo a loro dedicato con il solo atto della visione: fra questi c’è anche Layla Fourie di Pia Marais, lungometraggio INSPIEGABILMENTE in concorso alla 63esima Berlinale. Un film che supera in bruttezza quel che era stato già decretato come il più grande disastro del festival, ossia The Necessary Death of Charlie Countryman (per il quale rimandiamo a un’altra pagina del nostro “libro”). E questo non perché la regia della Marais sia scarsa o la fotografia – diretta da André Chemetoff – non metta in risalto il lato più selvaggio del Sud Africa, luogo in cui è ambientata la storia. È proprio perché la storia non esiste. Non una che sia per lo meno intellegibile, se non logica.

Gli attori invece (August Diehl, Rayna Campbell) esistono fin troppo. Inguardabili e, soprattutto, inascoltabili. Layla Fourie è uno di quegli esempi di cinema che ti inchiodano alla poltrona solo per puro rispetto del lavoro altrui, nonché in virtù di quello spirito di sacrificio che caratterizza una cospicua frangia dei cosiddetti “addetti ai lavori” – quello che noi cerchiamo di essere, in una parola.Comunque, qualora qualche anima volenterosa intenda gettarsi nell’impresa, si sappia che Layla Fourie è un’addetta alle assunzioni in un casinò, specializzata in interrogatori, che si ritrova a dover mentire per coprire un omicidio colposo. Commesso da lei stessa davanti al suo bambino di otto anni. Si sappia anche, a parte ciò, qual è l’uscita della sala più vicina al proprio posto.

 

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