BERLINO63: A Long and Happy Life – la recensione di Fausto Vernazzani.
La Berlinale apre la stagione internazionale di ogni anno, inaugura il Cinema delle stagioni successive. Quest’anno ha svolto, però, anche il ruolo di traguardo per ben due trilogie: il Paradise dell’austriaco Ulrich Seidl ed il trittico sulle “scelte” del russo Boris Khlebnikov, iniziato con Free Floating, continuato con Help Gone Mad ed infine conclusosi con A Long and Happy Life, in concorso ufficiale per l’Orso d’Oro.
Protagonista è Sasha, giovane imprenditore proprietario di diversi ettari di terra coltivata, “padrone” di un gruppo di lavoratori non proprio fieri di essere al suo servizio. La sua vita è vicina ad una svolta, un anonimo sta acquistano terra da tutti i possidenti della zona offrendo in cambio un cospicuo compenso: Sasha accetta, prevede una vita felice in città con la sua fidanzata, Anya (Anna Kotova), segretaria nell’ufficio legale dell’acquirente, ma ad ostacolarlo arrivano i suoi dipendenti, pronti a convincerlo a far battaglia per difendere la sua impresa.
Sceneggiato da Alexandre Rodionov come anche i precedenti, A Long and Happy Life scorre sfruttando l’idea del discorso sociale di Ken Loach sfiorandola come una retta tangente, concentrandosi invece su ciò per cui il titolo fa da contraltare: l’impossibilità di raggiungere una vita lunga e felice, fissa su orizzonti lontani come il Paradiso di Seidl, una illusione felice la cui morte e tragedia non necessita di essere visualizzata, espressa attraverso il finale monco e perfetto ai 77 minuti di pellicola.
Assistendo alla sequela di tradimenti subiti da Sasha, capiamo l’importanza del momento decisivo, fotografato nella nostra memoria, e delle conseguenze che le nostre scelte possono comportare. L’abbandono di Anya, il doppio gioco di Volodia (Vladimir Korobeinikov), i suoi lavoratori uno alla volta sempre più convinti d’aver sbagliato a loro volta, tutti elementi in rotazione attorno al centro di gravità rappresentato dal cambio di rotta di Sasha, interpretato in maniera molto convincente da Alexander Yatsenko.
Memorabile l’introduzione alla scena dell’incendio nei primi minuti, un intelligente uso d’immagini e suono, tuttavia A Long and Happy Life non vola troppo alto, ma le quote raggiunte sono sufficienti a concedergli il titolo di buon film, degno di essere in concorso alla Berlinale, pur non essendo al pari di altri grandi concorrenti.