FEFF14: Thermae Romae (Takeuchi Hideki, 2012)

di Francesca Fichera.

Sorprende la capacità tutta orientale di dare voce e forma a quegli spunti narrativi che qui in occidente il più delle volte apparirebbero nient’altro che enormi assurdità. Principalmente per questo motivo va elogiato Thermae Romae di Takeuchi Hideki, presentato al FEFF14 in anteprima mondiale: spacca in due – e in senso positivo – il suo plot che definire originale sarebbe dire davvero poco.

Implicita dichiarazione d’amore del regista tanto alla propria cultura quanto a quella italiana, con la presenza di diverse lame di sarcasmo che pur non feriscono le buone intenzioni di fondo, Thermae Romae porta sullo schermo la divertente avventura di Lucius Modestus, architetto romano dell’epoca di Adriano imperatore, messo in crisi dal “blocco del costruttore”, che per puro caso finisce in un bagno pubblico dell’odierno Giappone e ne rimane così affascinato da sceglierlo a mo’ di modello per superare la sua impasse creativa. Hideki, seppur con un umorismo gretto e talvolta pecoreccio, dimostra il raro acume di aver saputo individuare il legame giusto, quel senso che tutti danno per scontato e che proprio per questo andrebbe evidenziato: l’attenzione e la cura della persona per il benessere fisico, sono il tratto comune, quel passaggio sotterraneo fra l’antica penisola italica e l’ancor mutevole arcipelago asiatico metaforizzato dalla realizzazione del bagno perfetto. Il resto delle passioni condivise è quasi una sorta di conseguenza.

Fra loro è senz’altro da sottolineare la musica, quella dell’opera italiana, utilizzata da quel cultore che di sicuro sarà il regista in maniera maniacale, come contrappunto sonoro alle situazioni più esilaranti – su tutte l’inseguimento di Lucius e lo scimpanzé per la “conquista della banana” sulle note del Dies Irae di Giuseppe Verdi, da piegarsi dal ridere. E così scorre la prima ora, fra risate, viaggi nel tempo in forma di canto – intonati da un tenore professionista – , gag eccezionali, occhi strabuzzati (quelli dell’ottimo attore Abe Hiroshi) e riferimenti incrociati ai maggiori stereotipi italiani e nipponici. Se però il primo tempo strappa numerosi applausi al pubblico, gli ultimi tre quarti d’ora non riescono a mantenere vivo lo sprint iniziale: la leggera ironia e quelle – poche – fortunate inquadrature dalla iridescente resa fotografica lasciano il posto a effetti speciali spudoratamente rozzi – va bene scherzare col mezzo mediatico, ma c’è pur sempre un limite – e alla pesante ricerca di una didascalia, di una morale. E se è vero che “tutte le strade portano a Roma”, è altrettanto certo che ciò che comincia in un modo e finisce in un altro non è mai stato realmente qualcosa di eccezionale.

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