Headhunters, thriller adrenalinico nella Norvegia di Jo Nesbø – di Fausto Vernazzani.
Credere a una voce, la prima che sentiamo venire dalla testa di qualcuno, è il primo inganno del cinema. Ascoltiamo i personaggi dire quello che pensano, ci sediamo nella loro mente e ci sentiamo i padroni perché abbiamo accesso ai pensieri d’un altro essere umano per un istante, anche se fittizio. Condividiamo le loro conoscenze e ne facciamo luso che più ci aggrada. Dimentichiamo che anche nell’esperienza reale, sederci ad ascoltare quello che abbiamo da dire dentro di noi, non è per forza il momento della verità. La lingua dei pensieri è un’idioma straniero alla sua stessa terra madre. Conoscersi e capirsi è difficile tanto quanto conoscere e capire, in fin dei conti. Così siamo introdotti a Headhunters, accompagnati dalla voce narrante del suo protagonista.
Roger Brown (Aksel Hennie) ci racconta di essere alto 168 cm, cifra considerevole in negativo – se parliamo di un norvegese poi – un limite ai suoi occhi calcolatori, ma che compensa con una grande capacità di vendere se stesso e gli altri, di riconoscere il valore delle persone. Grazie a questo talento è diventato uno dei migliori cacciatori di teste del paese. Trova le persone giuste per il lavoro giusto. Trova anche i quadri giusti. Dietro la maschera da uomo daffari e marito della bellissima Diana (Synnøve M. Lund), è un ladro darte che sta per mettersi nei guai con un altro cacciatore di teste, questa volta dellesercito, Clas Greve (Nikolaj Coster-Waldau), futuro CEO di unazienda di alta tecnologia e possessore di un Pieter Paul Rubens dal valore inestimabile.
Headhunters è tratto dal libro omonimo di Jo Nesbø, autore norvegese di thriller di grande successo in tutto il mondo, prodotto filmico di valore per il quadro che realizza dellalta società di Oslo, un ambiente asettico e colmo di bianchi in cui il nero non riesce a mimetizzarsi perché fin troppo evidente. È un lavoro che non si può dire solo del regista Morten Tyldum, ma anche del Direttore della Fotografia John Andreas Andersen, entrambi fautori della bellezza estetica di uno dei migliori thriller degli ultimi tempi, a tratti troppo ordinato e chiaramente impacchettato tenendo ben spinte tutte le informazioni allinterno per chiudere la cerniera, ma ancora utile per riuscire a entrare nei limiti imposti dalla lista dei film soddisfacenti.
Tyldum e Andersen fanno di Headhunters uno studio sul ritratto di Hennie, eccellente interprete protagonista, in continua mutazione emozionale e fisica, restituendo limmagine di un uomo alla base degli schizzi dinchiostro di cui tutti siamo fatti, un miscellaneo di sensazioni a noi estranee, ma che nel momento del terrore si fanno più chiare perché in fuga verso lesterno, pronte a farsi notare il più possibile prima della fine. E distruggere quello che ci era stato detto che eravamo, quel che credevamo di essere. Un concetto banale in molti film del genere, ma quel freddo che si respira con quelle luci, quelle scenografie, un gelo rotto solo dal colore di unarte ipocrita e prostituita allesaltazione della casta più alta, rende questidea più calda, più forte, più evidente.
Headhunters passa inosservato, ha poco per cui farsi notare se non una presenza sparsa in vari film festival tra cui, ovviamente, il Toronto International Film Festival, ma merita di essere conosciuto prima di essere americanizzato nellovvio e poco atteso remake statunitense già in pre-produzione. La serata davanti al televisore è consigliata e i fan della serie Il trono di spade potranno dire di aver anche visto Coster-Waldau recitare nella sua lingua originale, dimenticandosi di essere il bel Jaime Lannister, villain numero uno del fantasy televisivo prodotto dalla HBO. Per Aksel Hennie possiamo solo augurarci una lunga carriera nel nuovo cinema scandinavo, a tinte gialle come la letteratura venduta nelle librerie di tutto il mondo.
Un pensiero su “Headhunters (Morten Tyldum, 2011)”