Arrivano le idi di marzo nella Rebibbia di Cesare deve morire.
Mica vi dispiace se mi concedo di raccontare in maniera soggettiva, finanche diaristica, l’esperienza della visione di Cesare deve morire, ultimo film (Orso d’Oro a Berlino) di Paolo e Vittorio Taviani?
È curioso che proprio un film dei fratelli toscani abbia segnato il mio esordio da CineFatto.
Ma ve lo chiedo soprattutto per mettermi al sicuro, perché devo ammettere che ho atteso il film in maniera un po’ acritica, con molta immaturità, aggiungerei: io i fratelli li ho conosciuti, mi hanno dimostrato affetto in entrambe le occasioni in cui li ho incontrati, e l’estrema simpatia che nutro nei loro confronti, unita all’enorme stima e all’ammirazione per il loro lavoro di cineasti, mi ha portato a pensare che la giuria di Berlino avesse incoronato un’opera destinata a diventare miliare, negli anni a venire.
Forse sarà così, perché l’operazione (bruttissima parola, non tanto perché rimanda alla sala d’ospedale, quanto per l’accezione molto marketing che ha assunto col tempo) ha un suo fascino estremo, anzi, di più: necessario. Riprendere, cioè, i detenuti del carcere di Rebibbia mentre allestiscono il Giulio Cesare di Shakespeare, indagare i loro volti durante i provini (ciascuno può, a suo piacimento, provare a indovinare i ruoli che il capocomico gli affiderà, o attribuirgli quello che la sua faccia suggerisce), seguire le appassionanti prove per le quali quasi à la manière del Living Theatre, con una spruzzata di “teatro della crudeltà” va bene qualsiasi luogo, sia esso il cortile dell’ora d’aria o il corridoio delle celle, lasciando aperte le porte agli screzi che tra detenuti, da che mondo è mondo, fa nascere la convivenza forzata. Ancora più bello - ancorché, forse, prevedibile - è il fatto che attraverso le parole del Bardo gli uomini di Rebibbia scoprono se stessi, trovano scritte nel copione le parole che non sono mai riusciti a dire, e per mezzo dei personaggi del play riescono finalmente a farle proprie.
Cesare deve morire diventa un documentario grazie al fatto di non essere un documentario: è un’indagine su come si rapportano allarte uomini che per un momento della loro vita (o più momenti, in alcuni casi) sono stati guidati da altri pensieri. I Taviani intervengono con discrezione in questo microcosmo, grazie all’uso delle Red One digitali (nobilitate da Soderbergh al cinema che conta), e poi scelgono di giustapporre il bianco e nero della vita (che proprio bianco e nero non è, a me è sembrato piuttosto un colore desaturato quasi fino allo zero) al colore della scena.
Tutto questo a credito del film. Ma mentirei se non dicessi che mi sono annoiato per buona parte della visione. Non so neanche dire perché. Forse a causa della stagnazione narrativa in cui s’impelaga il consistente blocco centrale, con gli unici scossoni di qualche grande momento interpretativo di Giovanni Arcuri nei panni di Cesare.
Adesso pregherei voi lettori di prendere la parola e di segnalarmi quello che avete apprezzato di più. Nonostante abbia aspettato un bel po’ prima di scrivere la recensione, sono aperto ai ripensamenti. Anzi, direi addirittura speranzoso.
Forza. Commentate. Convincetemi.
Elio Di Pace
Voto: 3.5/5