Hugo Cabret (Martin Scorsese, 2012)

L’Hugo Cabret di Martin Scorsese è un gran giocattolo per omaggiare George Méliès – di Elio Di Pace

Quando Georges Méliès (la “s” finale si scrive e si legge: Melié non è nessuno) in concomitanza con la Grande Guerra decise di farla finita col cinema, dando fuoco a tutte le scenografie del suo teatro e a chilometri di celluloide, acquistò un chiosco di giocattoli nella stazione parigina di Montparnasse. Tutti lo credevano morto, e quasi tutti i suoi film andarono persi. Qui finisce la Storia e comincia la storia: un trovatello che aggiusta gli orologi dello scalo ferroviario (un po’ Oliver Twist e un po’ campanaro di Notre-Dame, ma senza gobba, e tutto sommato grazioso) ha come missione di vita far funzionare un automa misterioso (un po’ maschera di ferro e un po’ Metropolis). Il robot a molla è la cerniera che collega i sogni del piccolo Hugo Cabret agli incubi dello scorbutico papà Georges. Che però non vuole sentir più parlare del suo passato. La sua nipotina e Hugo proveranno a restituirglielo, e a restituirlo agli amanti del cinema di tutto il mondo.

Dal graphic-romanzo di Brian Selznick (nipote di quel David O. Selznick produttore dal polso fermo di Hitchcock, Vidor, Cukor, Fleming), John Logan ha tirato fuori una sceneggiatura che, tradotta in film, ci mette almeno mezz’ora per gridare ad alta voce il vero nocciolo della sua questione (vi accorgerete di quale sia questo momento). Come Scorsese stesso ebbe a dire in una recente apparizione davanti a una platea di grandi e piccini (e noi c’eravamo): “La vera marca di un regista è l’entusiasmo”. E in Hugo Cabret ci sta. Il puntiglio molto History Channel con cui sono illustrati i procedimenti sul set e al montaggio per confezionare un lavoro di Méliès fanno sentire le pulsazioni di chi avrebbe voluto essere lì e prova a veicolare lo stesso kind of magic da quando, nel lontano 1967, presentò il suo primo, acerbo film, Who’s that knockin’ at my door.

Ma quelli che di Martin Scorsese amano la regia selvaggia, fatta di carrellate che accoltellano, misture febbrili di rigore barocco wellesiano e sporca genuinità che fu di Cassavetes, troveranno ben poco di quello che cercano: forse a causa della trasparenza richiesta dalla narrazione per l’infanzia; forse perché le scenografie di Dante Ferretti arredate da Francesca Lo Schiavo esistono solo in digitale e girare in mezzo a lenzuola verdi fa sentire un po’ a disagio quello stesso regista che per Casinò ha fatto costruire 150 set e per Gangs of New York ha innalzato sanguinosi quartieri antichi che ancora stanno in piedi a Cinecittà (tant’è che – ripetiamo – la parte migliore di Hugo è ambientata nel teatro di Méliès, ricostruito come sono ricostruite alla perfezione le coreografie di Voyage dans la lune, e quindi si diverte Martin talvolta a immobilizzare la camera per assecondare la prospettiva teatrale del cinema delle origini e talvolta ad arrampicarsi coi dolly sui catafalchi e seguire i carpentieri che eseguono le direttive del Maestro, mescolando poi il tutto con i veri brani colorizzati del risultato finale).

Su Ben Kingsley è pleonastico esprimersi. Chloë Moretz (già in 500 giorni insieme, nel’ottimo remake americano di Let Me In e in Texas Killing Fields, film d’esordio della figlia di Michael Mann) interpreta la piccola Isabelle, e dà già l’impressione di avere un futuro radioso. Asa Butterfield nel ruolo di Hugo funziona; Sacha Baron Cohen, invece, come ispettore ferroviario non funziona per niente, ma il suo dobermann è straordinario. Jude Law fa poco più di un cammeo, quindi non si conta. Bellissimo rivedere Christopher Lee nei panni del bibliotecario Monsieur Labisse e Michael Stuhlbarg (non solo il serious man dei Coen, ma anche uno dei protagonisti di Boardwalk Empire) in quelli dello storico del cinema René Tabard.

La fotografia di Robert Richardson, che alterna uno Scorsese a un Tarantino, ha raggiunto livelli assoluti di perfezione, e finalmente ci mette davanti agli occhi un 3D funzionale al racconto oltreché all’incasso.

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