Across the Universe: i colori della musica.
Quando il cambiamento si insinua nel tempo i colori si incupiscono e la musica si fa più triste. Julie Taymor rende l’idea alla perfezione. Reduce dalle visioni di Frida e dalle scenografie imponenti di Titus, nonché da numerose regie teatrali, la regista americana si riconferma pittrice e coreografa del grande schermo. Il suo Across The Universe racconta, in punta di piedi e sulle note evergreen dei Beatles, gli anni difficili delle proteste pacifiste, delle giovanissime reclute, della schifosa guerra in Vietnam.
Un tema trito e ritrito che riesce a rinnovarsi splendidamente sotto lo sguardo frastornato degli spettatori. La trama – come in ogni musical da manuale – è semplice: Jude (Jim Sturgess) ragazzo inglese emigrato in America alla ricerca del padre, conosce l’eccentrico Max (Joe Anderson) e la sorella Lucy (Evan Rachel Wood) della quale si innamora. Ma il vortice di tinte sgargianti, ritmi frenetici e balletti, degni di un novello West Side Story, è destinato a spegnersi: piovono i primi telegrammi, ombrelli neri si assiepano alle porte delle chiese. L’ombra del conflitto incombe ingurgitando sorrisi.
Meno male che c’è la musica, «l’unica cosa che abbia un senso» che di diritto assume il ruolo di protagonista assoluta del film facendosi parola, suggestione, parte integrante delle immagini. Le incredibili trovate scenografiche di Mark Friedberg, rese iridescenti dalla fotografia di Bruno Delbonnel, prendono vita scivolando sul pentagramma ed irrompono nell’immaginario collettivo del pubblico – degna di nota è la sequenza delle fragole sanguinanti, accompagnata dalla struggente Strawberry Fields Forever.
Nostalgia decorativa
A completare il tutto, il – ben riuscito – meccanismo di «citazione nella citazione», a partire dai camei illustri (Joe Cocker, Salma Hayek e Bono Vox, quest’ultimo nelle vesti compiaciute di guru allucinato) fino al concerto conclusivo, chiaro riferimento all’ultima apparizione pubblica dei Beatles sul grattacielo della Apple Records.
Insomma, per coloro che hanno tentato il paragone di Across The Universe con Hair o Moulin Rouge! il responso è il seguente: tutta un’altra cosa. Non v’è concetto fra le righe, nessuna idea a cui la Taymor abbia voluto fare una dedica. Si legge soltanto la vaga intenzione di ricordare, uno slancio nostalgico ma leggero rivolto al passato, anni vivi che sopravvivono ancora perché ci sono la chitarra di Jimi Hendrix e la voce di Paul McCartney a riportarli alla mente.
Ciò che resta è pura decorazione, un viaggio all’LSD prossimo a svanire con tutti i suoi effetti che, per quanto possano funzionare, lasciano solo una splendida impressione. E trentatré canzoni da canticchiare.
Francesca Fichera
Voto: 3.5/5