Kill Me Please (Olias Barco, 2010)

Kill Me Please: verrà la morte e proverà a farvi ridere – di Elio Di Pace.

Ricordo ogni dettaglio del giorno in cui al Festival di Roma andammo a vedere Kill me please, bianco e nero di provenienza belga. Fino a quel momento avevamo avuto il piacere di vedere dei bei film (Dog Sweat, pellicola clandestina iraniana, Animal Kingdom, cruento noir australiano), dei lavori sorprendenti (Una vita tranquilla e Io sono con te, poderose risposte di Cupellini e Chiesa a chi snobba il cinema italiano, Haevnen, di una Susanne Bier forse posseduta dallo spirito di Cronenberg) e delle grandi occasioni sprecate (il pessimo Il padre e lo straniero, che dà ragione a chi snobba il cinema italiano, o La scuola è finita, interessante fino al finale highschoolmusicaleggiante).

Poi arrivò Kill Me Please, che stava riuscendo nel difficile intento di far diventare dibattito anche le voci di corridoio: “Sai, si dice sia il più bello in concorso”, “Eh, però è in bianco e nero”, “Caspita!”, “Sì, però non ha nemmeno un secondo di musica…”, “Mi cojioni!”. Eccetera.
Quel pomeriggio pioveva. Ci sedemmo sugli scomodissimi sedili di plastica e acciaio di una delle sale allestite alla bell’e meglio dall’organizzazione, fuori mano rispetto all’auditorium. Il proiettore cominciò a girare, e subito ci srotolò davanti agli occhi una scala di grigio che con facilità riportò alla mente Il nastro bianco. Sono suggestioni del momento, non c’entra nulla Kill Me Please col capolavoro di Haneke, però se non fu colpo di fulmine, poco ci mancava.

La trama 

Questo film, di tale Olias Barco (Dio lo benedica, dov’era fino ad ora???), parla di un istituto medico molto particolare, gestito dal dottor Kruger: una clinica linda e pinta, circondata dai boschi dove si pratica il “suicidio assistito”. Ci vanno le persone che vogliono farla finita col mondo crudele, e la clinica li mette nelle condizioni di trapassare con serenità. Anzi no. Li mette nelle condizioni di andarsene come meglio credono, come hanno sempre SOGNATO.

Attenzione, non stiamo parlando di eutanasia: perché se è vero che il primo che vediamo dipartire sorbisce il veleno da un calice di champagne mentre su di lui sinuosamente si muove una adolescente francese che sembra una statua di Canova, c’è anche chi si presenta raccomandando che vorrà morire mentre davanti a lui si consuma una scena da guerra del Vietnam, con tanto di compagno di battaglia che si dilania su una mina e sparge gli schizzi del suo sangue sulla faccia del paziente…

La svolta del film avviene quando questa paradossale situazione si concretizza: nel bosco due pazienti parlano di donne e di poker. A uno di loro si apre una voragine in fronte. Passa poco tempo e la stessa sorte tocca anche all’altro: spari oltre la siepe.
I nemici (ovvero la società, quella società che pensa di poter giudicare il modo in cui una persona vuol dire addio al mondo crudele) assediano la clinica: in un modo o in un altro, i pazienti li combattono, e li sconfiggono. Come li sconfiggono? Ovviamente suicidandosi. E allora sono attimi sconvolgenti di cinema quando “l’eroe della giungla”, con un’armatura di gommapiuma e un fucile a piombini, si fionda sui cattivi e ne mette fuori combattimento alcuni prima di capitolare come aveva sempre desiderato; oppure quando, all’interno, un altro internato dice a Kruger: “Dottore, faccia fare a me, sono un cecchino”. Un secondo dopo, pistola alla tempia e bum.

Le reazioni

Il pubblico in sala rideva, perché obiettivamente uno spettacolo grandguignolesco/pulp si stava squadernando sullo schermo. Quando però l’ultimo paziente si sistema spavaldamente al centro dell’inquadratura e, con i cadaveri attorno e il maniero diroccato alle spalle, comincia a intonare La Marsigliese, chi guarda il film resta lì a riflettere, con l’amaro in bocca.

Qui il fatto è più serio di quel che possa sembrare, e non c’è proprio niente da ridere. Anche perché c’è un particolare niente male da tener presente: un istituto come quello dell’”implausibile” Kill Me Please esiste davvero a Zurigo, dal 1998.

Comunque, il film ha vinto il Marc’Aurelio d’Oro.

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