Millennium Kon

Un decennio senza il regista giapponese Satoshi Kon

Con gratitutine per tutto il buono che esiste nel mondo, poso il mio pennello.

Furono le parole con cui Satoshi Kon si congedò. Scrisse un’ultima lettera sul suo sito, raccontando lo stupore e la meraviglia d’un uomo alle prese con la consapevolezza della propria mortalità. Il 24 agosto di dieci anni fa un cancro al pancreas lo uccise e io come allora sono ancora sotto shock. Ho anche un’esperienza in più sulle spalle e ho notato un tratto che accomuna i grandi, parole scelte con cura per sorridere al mondo da cui si allontanavano.

Quando morì nell’ormai lontano 2010, fu una strana sensazione: la mia esperienza con la morte era ancora debole, potrei dire convenzionale, e leggere della dipartita di uno dei miei registi preferiti mi rubò l’aria dai polmoni e iniettò una discreta dose d’acqua salata su fra gli occhi. Satoshi Kon lo scoprii per caso qualche anno prima, cinefilo imberbe approfittai di un’offerta su thrauma.com e acquistai a occhi chiusi il boxset di Paprika.

È un DVD con pochi extra, ma il gioiello è lo storyboard accompagnato da ben 60 pagine di booklet in giapponese che forse sarebbe pure il caso di far tradurre – ci ho provato, ma la gente ha la brutta malattia per cui si offre e poi si tira indietro – e nello sfogliare i disegni ho conosciuto la straordinarietà di Kon. Un’infinita quantità di dettagli mai casuali, persino le gocce di pioggia sul parabrezza di Konakawa erano cariche di significato, una sottolineatura sotto questo o quel dialogo, movimenti in sottofondo dove Kon dava libero sfogo alla magia dell’animazione.

Immaginare mondi

Fu nient’altri che Hayao Miyazaki a dare quella che ritengo essere la migliore definizione del cinema animato. La espresse in the Kingdom of Dreams and Madness, dove quello che tutti abbiamo immaginato come un caro nonnino si apre al pubblico con una sigaretta in una mano e una pinta di cinismo nell’altra. A un certo punto lo vediamo affacciarsi a una finestra e indicare i tetti lì all’esterno: e se ora saltassimo sul tetto davanti a noi? Poi sul successivo e così via? Questo è il potere dell’animazione, ti consente di fare qualsiasi cosa.

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The Kingdom of Dreams and Madness (2013)

Riporto anche questa dichiarazione di Steven Spielberg in un’intervista all’AFI:

Credo l’ostacolo più grande per un regista sia sapere cosa vuole. […] Una volta che sai cosa vuoi, averlo non è così difficile. Richiede solo tempo se lo vuoi davvero, se hai un’immagine chiara. È la ragione per cui sono innamorato degli animatori Disney, per cui credo l’animazione sia la madre del cinema live action. Perché loro devono avere in mente un’immagine chiara di come uno scoiattolo rotola nella neve. Devono sapere che aspetto ha ogni lato dello scoiattolo. Non lo costruiscono e lo fanno rotolare, no, devono usare la loro immaginazione, dipingerla in 12 cel per secondo. Come si muove la pelliccia, come soffia il vento. Perciò credo tutti i registi debbano essere prima animatori.

Condivido l’ammirazione di Spielby, l’animazione fu il mio primo amore all’inizio del mio percorso di studi. Mi incantava La spada nella roccia e la rivoluzione che rappresentò La sirenetta, ma ovviamente gli amori più grandi erano fra gli autori giapponesi e Miyazaki in cima. Lo considero in quanto artista anche superiore al caro Walt Disney e quando incontrai Satoshi Kon ero e sono ancora convinto sarebbe stato lui il prossimo titano dell’animazione. Per quanti dettagli ci potessero essere nelle civiltà immaginate o trasposte da Miyazaki, non ho trovato nulla di paragonabile alla intricata perfezione di Paprika, il culmine della sua brevissima carriera.

Sulla soglia

A questo punto sciorinerei quei nomi di importanti autori statunitensi influenzati da Kon e forse non sbaglierei. Le qualità di un regista si possono convalidare anche andando a misurare la portata del suo braccio nei lavori altrui. È risaputo di come Il cigno nero sia fortemente ispirato a Perfect Blue e Inception a Paprika, per quanto sia più veritiera la prima affermazione e meno la seconda: il blockbuster di Christopher Nolan è spesso paragonato a Paprika perché entrambi entrano nei sogni, ma oltre questo non vi sono somiglianze, vi è piuttosto l’evidente e clamorosa differenza tra un regista davvero visionario e un altro che sembra non essere mai uscito da una sartoria di lusso.

In fin dei conti è un confronto ingeneroso verso Nolan, il suo è un film a sé e soprattutto va detto Paprika trasporta all’estremo la sottile linea divisoria fra realtà e subconscio. Quando adattò Perfect Blue fu Kon a introdurre gran parte dei temi che lo hanno reso un instant cult: la giovanissima pop idol pronta a una dura e violenta maturazione scopre quanto sia difficile riconoscere la reale sé stessa non appena si trova al centro di una serie di omicidi efferati, collegati a un blog dove la sua vita è raccontata fin nel più intimo e privato dettaglio.

Un esperto nell’individuare quei luoghi liminali dove la persona si frammenta.

È il passaggio all’età adulta in Perfect Blue.
È la scoperta di aver interpretato un sogno una vita intera in Millennium Actress.
È l’abbandono di sé stessi a una società transitoria in Tokyo Godfathers.
È l’accettazione dei propri sentimenti reconditi in Paprika.

Il primo medium: il corpo

Rivedendo la sua filmografia – discorso valido anche per l’anime in tredici puntate Paranoia Agent – mi sono reso conto di quanto corriamo ogni giorno il rischio di banalizzare Satoshi Kon nel relegarlo nella contrapposizione fra realtà e sogno. La giovanissima Mima di Perfect Blue lascia le Cham e scopre le innumerevoli difficoltà della vita adulta, le scelte sbagliate, il futuro che cambia (sì, sto plagiando Niccolò Fabi) e più di tutto si rende finalmente conto di quanto il suo corpo sia capace di veicolare un messaggio al di là della sua persona.

È un mondo incontrollabile.

È il sesso da cui è improvvisamente sommersa a raccontarle una nuova storia su di sé: prima un’innocente idol venduta all’affamato pubblico maschile suggerendo e non spogliando, cosa a cui si sottopone con una partecipazione a un drama scabroso dove sarà spinta suo malgrado a interpretare una scena di stupro. Le saranno stracciate le vesti, scoperta la pelle e violata la carne per una macchina da presa nemmeno troppo coinvolta. È solo una scena, è finzione, ma Kon sa che non è così e nel suo ultimo film lascia pronunciare queste parole a un personaggio:

Paprika (2006)

È la verità emersa dalla finzione, lo stupro è in scena ma per Mima è quanto di più reale esista, del resto si è ormai abituata a leggere sulla rete come passa le sue giornate, spiata forse da uno stalker o chissà chi altri. La sceneggiatura scritta da Sadayuki Murai insieme a Kon – non accreditato – non è però l’unico pregio: la regia è straordinaria, a partire dalla scena d’apertura, un montaggio alternato dove la vita ordinaria di Mima si incrocia alle luci della ribalta, agli sguardi dal basso lungo le gambe delle Cham fino ad arrivare agli occhi spenti ed eccitati dei fan. Uomini spesso adulti e sfegatati appassionati della vita di tre ragazze a malapena maggiorenni. Perfect Blue potrebbe benissimo essere letto come un’aspra critica al mondo delle idol, ma Satoshi Kon si è sempre detto estraneo a quel mondo, contrariamente al collega Murai, e che il ritratto grottesco è solo funzionale alla sua storia.

Rosebud…

Il successivo Millennium Actress è per stessa ammissione di Kon un’appendice di Perfect Blue. Il desiderio comune di veder ripetuta la fusione tra realtà e subconscio dette i natali alla storia di Chiyoko Fujiwara, attrice ultra-settantenne dalla gloriosa carriera nel cinema giapponese, attraversata da un mistero lungo una vita e dalla forma di una chiave. “Apre la cosa più preziosa al mondo” dice alla piccola Fujiwara un artista in fuga dal regime nipponico e film dopo film, scopriamo in realtà sempre meno di Fujiwara: la sua vita è stretta attorno a quel singolo momento.

Potremmo definirlo un film ispirato a Quarto potere. Charles Foster Kane accumulava fortuna su fortuna senza però raggiungere lo scopo ultimo: ritrovare l’infanzia perduta rappresentata dalla sua rosabella; Chiyoko Fujiawara divenne attrice per affiggere il suo volto ovunque nella speranza di essere riconosciuta da quell’uomo. La chiave è la sua rosebud, ma per Fujiwara Satoshi Kon ha un destino diverso da quello scritto da Orson Welles per il suo Citizen Kane ed è riassunto magnificamente in una scena che si riallaccia all’inizio dell’anime.

Millennium Actress (2001)

È uno spoiler, sì, o forse no. Millennium Actress al contrario degli altri tre film è un lungo percorso. È una passeggiata senza un inizio e una fine, è da godersi al momento senza attendere un gran finale o uno start da brividi. La stessa apertura dove la partenza di un razzo in un film di fantascienza incrocia il fremito della terra nel Giappone odierno dov’è ambientato il secondo film di Satoshi Kon è abbastanza sommessa se confrontata coi fuochi d’artificio con cui iniziano Perfect Blue e Paprika o la fame di sincerità dei tre Tokyo Godfathers.

Se Perfect Blue fu tratto da un romanzo e Millennium Actress nacque come sorta di appendice al primo, Tokyo Godfathers è in teoria da considerarsi il film originale di Kon. Ma lo sanno anche i sassi che si tratta di una libera re-interpretazione di In nome di dio di John Ford. Chi strilla, strepita e starnazza contro i remake figli del diavolo può starsene benissimo seduto a far sanguinare l’ugola: Tokyo Godfathers è un dolcissimo ritratto di tre diversi outsider, un uomo messo in ginocchio dal vizio, una drag queen afflitta dalla vergogna per non essersi saputa controllare e una ragazzina spaventata scappata di casa. Uniti da un neonato da riportare a casa sotto Natale.

E alla fine arriva Paprika.

Un capolavoro di regia.
Un capolavoro di scrittura.
Un capolavoro anche musicale, oh.

Paprika (2006)

Il tocco piccante

Sono fermamente convinto i film migliori siano capaci di parlare a ognuno di noi in modo diverso. Sanno tirar fuori una lettura differente per ciascuno e io Paprika lo tengo stretto al cuore come storia d’amore. Trasposto dal romanzo di Yasutaka Tsutsui – e merita, cazzarola se merita – potrebbe sembrare lontano anni luce da una love story, ma quelle tangibili hanno dinamiche assai diverse dalle rom-com. Di cui sono comunque innamorato, mi spiace, credo non esista un genere che io non apprezzi… a parte forse il cannibalico italiano, ma nessuno è perfetto, dai.

In un’avanzata clinica il genio obeso Tokita inventa un apparecchio che consente di entrare nei sogni delle persone. A trovare un’applicazione è la fredda dr.sa Atsuko Chiba, psico-terapeuta che individua immediatamente l’enorme potenziale medico: poter trattare da vicino pazienti affetti da gravi disturbi psicologici e psichiatrici. Trattasi tuttavia di un prototipo sperimentato su poche persone, ma senza saperlo è già finito nelle mani sbagliate e presto la DC Mini da speranza della medicina diventa un ingresso per le atroci manie d’onnipotenza di personaggi malati.

È quasi shakesperiano, Paprika è un dramma sulla gelosia e sui deliri d’uomini intrappolati nell’ambizione. Sotto le macerie un amore nascosto da Satoshi Kon eppure chiave per chiudere il rubinetto dei sogni. In realtà – una parola buffa, arrivati a questo punto – gli amori sono due. Uno si chiuderà con una dolce scena che ogni tanto mando in replay nella mia testa per scaldarmi quando fa buio, la seconda è fra un uomo e una passione mutata che non sa più come riconoscere. Konakawa, il detective con un odio misterioso e viscerale per il cinema.

Paprika (2006)

Satoshi Kon nei suoi quattro film è stato incapace di lasciare il cinema fuori dalla sua arte. Curioso per chi sognava di diventare un mangaka lasciare traccia della settima arte in ogni sua opera e mai come celebrazione fine a sé stessa. È il medium attraverso cui ognuno si riconosce. Mima entra nella vita adulta quando inizia a essere ripresa, Chiyoko ne ha bisogno per rendere visibile a sé stessa il suo tesoro più grande, i tre padrini ne incarnano i valori fantasiosi, Konakawa la scoperta più bella di tutte: dalla finzione nascono sempre le verità.

Qual è il luogo più sicuro in Paprika? Il proprio sogno, la propria finzione, la propria verità. Lì fugge Konakawa. Lì Atsuko scopre come ribaltare la situazione catastrofica. Lì Tokita trova le responsabilità da cui è sempre fuggito. È un messaggio d’amore ai miei occhi, superiore al thriller e al mystery. Satoshi Kon adatta Tsutsui e invita all’equilibrio, anzi, a ritrovare un rapporto armonioso con le narrazioni di cui ci siamo resi protagonisti. Il finale, perfetto.

In sala a vedere dreaming kids.

Paprika (2006)

Se di Paranoia Agent non ho parlato è solo perché mi è mancato il tempo di rivederlo e dopo tanti anni ne avrei avuto bisogno. I suoi temi sono però ampiamente rappresentati anche nell’esigua filmografia, che ritengo un must nella sua interezza, nessuno escluso. Millennium Actress è ingiustamente ignorato, ad esempio.

Cos’altro dire? Satoshi Kon mi manca moltissimo.

Posso concludere solo con queste parole:
Cancro, vaffanculo. Mentre ci vai, me ne sto al caldo fra quei quattro sogni sparsi chiusi nella mia testa.

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2 pensieri su “Millennium Kon

  1. Bellissimo post, complimenti; mi sono davvero emozionato mentre lo leggevo. Purtroppo ho conosciuto Satoshi Kon piuttosto tardi, solo un paio di anni fa, ma ho amato tutti i suoi film e scoprire da wikipedia che era morto è stato una brutta doccia fredda.
    E’ ironico che sottolinei come Millennium Actress sia il suo film più ingiustamente sottovalutato, perché proprio quello è anche il mio preferito: è vero che Paprika è praticamente perfetto sotto tutti i punti di vista, ma Millennium Actress mi ha davvero emozionato e parlato in modo diverso.

    "Mi piace"

    1. Ricordo che io lo scoprii intorno al 2007-2008, quando Paprika era già uscito. Ero tutto emozionato all’idea del suo prossimo film, the Dream Machine e invece… posseggo giusto gli artwork che si trovano sul libro the Art of Satoshi Kon. Mi fa piacere quanto dici su Millennium Actress, invece! Storia bellissima, anche se nasce per difendere il territorio creato da Perfect Blue, quando l’ho rivisto l’altro giorno mi è piaciuto ancor più di prima, nemmeno ricordavo la battuta finale di Chiyoko. Semplice, forse meno virtuoso degli altri tre, però di grandissimo effetto.

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