di Francesca Fichera e Fausto Vernazzani.
Oggi visitiamo The Visit. Insieme, così come lo abbiamo visto. Una cosa che non facevamo da un po’, quella di recensire qualcosa a quattro mani, perché da tempo non ci capitava un’esperienza di visione così, come dire?, particolare che ci spingesse a farlo.
Ed eccola qua, con l’ultimo film di M. Night Shyamalan: un mockumentary le cui fila sono tessute dai due giovanissimi protagonisti Becca (Olivia DeJonge) e Tyler (Ed Oxenbould) nel corso della loro vacanza dai nonni, mai conosciuti prima perché la mamma (Kathryn Hahn) fuggì da casa loro quando era ancora una ragazza. La casa dei nonni, un’isola in un mare di neve, lontana dal centro abitato, li accoglie sin da subito col sorriso dei proprietari, John (Peter McRobbie) e Doris (Deanna Dunagan). Imbarazzati, ma felici, danno loro il benvenuto con innumerevoli proposte culinarie e un importante divieto: alle 9:30 di sera si va a letto ed è tassativamente proibito uscire dalla stanza.
Mentre noi spettatori ci facciamo mille domande, ben sapendo di trovarci di fronte a un classico horror della Blumhouse, Becca e Tyler pensano alle loro arti, lei al cinema e al documentario sulla loro visita ai nonni e lui al Rap, due forme di superamento del grande trauma subito: l’abbandono del padre quando erano entrambi piccoli. Tra una canzoncina sulle torte e una serie di menate intellettuali sulle riprese cinematografiche, accadono mille stranezze e il dubbio assale il duetto: ma i nonni fossero malati di demenza senile? Oppure hanno qualcosa di segreto, nascosto nella cascina e nei sotterranei? Perché la mamma fuggì da casa loro? Quanto diamine è profondo il forno della nonna per farci entrare per intero una ragazza di almeno 16 anni? L’ultima è ovviamente la domanda più importante, perché sotto Natale sarebbe bello poter fare solo un’infornata di biscotti e non duecento di fila.
Quando diciamo questo – cioè che il giochetto del forno costituisce uno dei pochi interrogativi in grado di mettere del pepe in The Visit – un po’ scherziamo e un po’ no. Perché Shyamalan, a furia di tirare la corda della tensione con il tipico effetto-domino di segnali inquietanti e falsi indizi, quei signs che sanno tanto di autocitazione apertamente ironica, finisce con il romperla… rompendo altre cose (sì avete capito); e questo soprattutto a fronte dell’uso del colpo di scena che tanto ha dato lustro ai suoi film, e che in questo caso invece non fa altro che rafforzare il concetto di ‘occasione sprecata in modo orribile‘.
Viene infatti spontaneo domandarsi, al termine di tutto, che senso abbia avuto tratteggiare così precisamente due personaggi come quelli di Tyler e Becca, a tal punto delicati ed esposti nel loro essere giovani e traumatizzati, accanto alle modeste figure di villain dei due anziani, per poi inserire tutti in un contesto totalmente forzato e artificioso dove – per intenderci – le fotocamere possiedono un’autonomia illimitata, anche se dici “nonno colleziona pupù in vasetti” tua mamma se ne fotte, esiste Skype ma non il telefono amico e, cosa più fastidiosa di tutte, un ragazzetto misofobico di tredici anni rivela di avere la stessa maturità e forza d’animo di un uomo di cinquanta, in barba a tutti gli psichiatri e i santoni del mondo (e fa niente se esistono i bambini-soldato).
La sensazione non è quindi soltanto quella, già di per sé pruriginosa, che in The Visit Shyamalan sia stato lì a giocare con noi poveri spettatori facendo ciao ciao alla coerenza per poi additarci come Nelson dei Simpson; ciò che si sente, e stride, è la voce del regista che parla con prepotenza per bocca dei personaggi (il piccolo rapper in primis) valicando maldestramente e con un clamoroso scivolone (a voler essere gentili) la linea di demarcazione fra la logica del mondo creato e quella del mondo realmente vissuto. Per di più, con la doppia contraddizione di una soluzione irrealistica e superficiale oltre ogni dire.
Per carità, avremmo anche potuto riassumere tutto in “guardando The Visit potreste sentire l’odore di quella roba che spalmano in continuazione nel film”, ma il prezzo della deontologia è anche questo.
E pensare che quello che a voi ha dato più fastidio per me è la cosa migliore di tutto il film! Io ho trovato tratteggiati benissimo proprio i due protagonisti che hanno reazioni tipiche dell’adolescenza che è un periodo di scoperta di sé e di (apparente) incoerenza. Il fatto di compiere azioni che sembrano in contrasto con il proprio comportamento è proprio uno di quei tratti tipici di questo periodo della vita che tende a scomparire in età adulta (a meno che uno non sia irrisolto… ma questo è un altro discorso!). Un adolescente è capace di attingere a risorse interiori che non è in grado di mostrare apertamente e che non sa neppure di avere, soprattutto nei momenti di pericolo e tensione. Il comportamento apparentemente incoerente dei due è, invece, perfettamente aderente al processo di crescita che i due adolescenti stanno attraversando. E il superamento del trauma dell’abbandono paterno attraverso l’esperienza della visita ai nonni è, secondo me, la carta vincente del film. Per approfondire questo punto potete leggere questo bellissimo articolo: http://www.spiweb.it/recensioni-cinema/6600-the-visit
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In realtà l’incoerenza non è dei protagonisti adolescenti (scelti benissimo, fra le altre cose, davvero ottimi interpreti) ma del regista. Fermo restando che l’adolescenza è, di fatto, una fase in cui si può dire si attui una sorta di prima “selezione naturale”, perché per quanto sia piena di risorse è sempre, per contro, disseminata di ostacoli, dei primi grandi crolli, l’apparente eccezionalità dei due ragazzi (a quell’età siamo tutti un po’ strani, il resto è stereotipo), ben tratteggiata per tutto il film, diventa eccessiva, e quindi artefatta, nell’assurda “soluzione rappata”.
Shyamalan vuole dire a tutti i costi che i traumi, anche i più grandi, possono essere superati, ma per me non è dote di buon narratore usare i propri personaggi come fantocci della propria voce; soprattutto se, facendo questo, la logica del discorso complessivo viene sacrificata. E due volte, per me: perché se da un lato un “messaggio” del genere è, o potrebbe essere, realistico, dall’altro c’è l’assoluta assurdità del fare superare una tragedia attraverso un’altra tragedia – quest’ultima, in termini anche fisici, molto più violenta della prima. A che mondo sta parlando Shyamalan? Al nostro o a quello che ha creato? Oscillare fra i due poli non è corretto, perde in credibilità. Perché è vero, i traumi possono essere metabolizzati, ma dipende dal trauma… E di sicuro, quello (o quelli) raccontato nel film non lo canti via in due strofe.
p.s.: avevo letto l’articolo e trovato interessante la parte riguardante la famiglia, ma per il resto mi trova in totale disaccordo, a dire il vero!
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cose ‘e pazzi <3
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B-)
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