Sacro GRA (Gianfranco Rosi, 2013)

di Fausto Vernazzani

Chi parla di rivoluzione avvenuta, ancora non sa che la coniugazione al passato andrebbe utilizzata solo quando il proiettile sparato raggiungerà il suo obiettivo. Imbracciare un fucile e premere il grilletto sono solo le prime due fasi: colpire il bersaglio e stenderlo sono la finalità da perseguire. Importante lo è di sicuro, premiare un documentario italiano, prima volta che il genere torna a casa con un Leone d’Oro alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, diretto in questo caso da un beniamino del Lido, Gianfranco Rosi, acclamato regista di El Sicario e Below Sea Level. Le contestazione ovviamente non mancano mai, la Biennale soffre, ma si punta il dito contro il malanno superficiale, non contro il cancro che lo devasta piano piano dall’interno.

Sacro GRA è stato uno dei tre film italiani della miglior selezione nostrana da tanti anni a questa parte a partecipare alla Biennale, insieme a L’intrepido di Gianni Amelio (fischiato) e a Via Castellana Bandiera (applaudito). Il cinema documentario italiano è forse quanto di meglio il nostro paese ha da offrire al mercato internazionale, con titoli sempre più accattivanti e registi ormai formatisi e saldatisi in uno spettro formale preciso e non abbozzato. Rosi era uno di questi e, dopo essersi dato ai narcotrafficanti messicani, è tornato a casa, su consiglio della sua ex-moglie a quanto pare, per raccontare le vite di alcuni curiosi personaggi che abitano i bordi del Grande Raccordo Anulare (il GRA, appunto) che circonda la città di Roma. Settanta chilometri di autostrada, un inferno automobilistico per chi lo vive tutti i giorni.

Sacro GRA

Un nobile decaduto, quasi un collezionista di titoli, fitta la sua magione dallo stampo aristocratico per fotoromanzi, riprese cinematografiche, spettacoli teatrali e, perché no, anche feste di compleanno. Un pescatore vaga con la sua barchetta lamentandosi dell’incompetenza altrui. Prostitute si preparano alla loro notte di lavoro, così anche il personale di un’ambulanza a soccorrere i tanti feriti degli incidenti stradali, ed un colto italiano del nord vive in una casa stretta stretta con sua figlia. Lontano da tutto questo, sotto i cavalcavia, un botanico studia le palme cercando di scoprire quali vanno salvate dai parassiti che le stanno divorando dall’interno.

Quest’ultimo personaggio, il più “normale” di tutti – ma dal lavoro più bizzarro -, spiega la metafora di una civiltà che divora se stessa spegnendo le grida col suo vociare e masticare continuo. Ma purtroppo non basta a dare un messaggio unico capace di legare tutte queste storie con un significato comune. Ogni episodio, ogni persona – tutte reali, riprese in momenti quotidiani -, è fine a se stessa, la cui presenza è motivata solo in base ad un luogo offerto dalla macchina da presa solo di sfuggita, una sorta di presenza ectoplasmatica. Il Sacro Grande Raccordo Anulare, è un protagonista spento e deturpato, un fantasma da reportage a cui manca il fil rouge del commento giornalistico che assegnerebbe un senso a Sacro GRA.

Il più volte citato paragone a Italo Calvino ed al suo capolavoro Le città invisibili non viene in aiuto di Gianfranco Rosi, dove non vi è nessun Marco Polo con le sue descrizioni fantastiche e al di là del naturale – l’esatto opposto dell’unico Polo individuabile in Sacro GRA, il regista, naturalista nell’anima -, né un’atmosfera da sogno per avvolgere gli spettatori in qualcosa di memorabile come l’esplorazione di quelle fette di mondo ancora ignote. Si percepisce l’incompletezza, la natura forse un po’ troppo televisiva di questo Leone d’Oro, il cui scopo di sdoganare il documentario si spera sarà portato a termine, ma ora come ora sembrerebbe che la Giuria abbia dato un fucile da caccia in mano ad un tremolante ed insicuro tiratore.

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