di Fausto Vernazzani.
La critica italiana fa di tutto per nascondere il cinema di genere nostrano, eppure più ne guardo e più ne sono incantato. Non è facile trovare il capolavoro, ma non appena arriva lannuncio finale del termine del film è complicato togliersi di dosso quelle immagini scolpite con laggressività dun bambino infuriato. Si confondono gli ordini morali e letica si capovolge. Scovare la bellezza nella cattiveria è un diktat nello spaghetti western. Il finale di Cera una volta il West o di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone sono più commoventi di un The Million Dollar Baby, un po come lo sguardo crucciato dai mille rimorsi e dalle piaghe aperte duna vita infame di un Franco Nero o un Klaus Kinski riesce a trasmettere. Ai grandi film di questo genere non posso non aggiungere E Dio disse a Caino.
Gary Hamilton (Kinski) ha appena terminato di scontare per buona condotta la sua condanna ai lavori forzati, dieci anni durante i quali ha covato la sua vendetta, raccogliendo le energie per tornare nel suo villaggio e farsi giustizia. Colpevole è Acombar (Peter Carsten), il Signore del paese che un tempo fu patria di Hamilton, abitante della sua vecchia fazenda, compagno della sua Maria (Marcella Michelangeli) e padre dellignaro Dick Acombar (Antonio Cantafora). Dieci anni fa qualcosa accadde tra Acombar ed Hamilton, ed ora lui è tornato per prendersi ciò che era suo, scrivere un nuovo significato per l’innocenza e la colpevolezza sul vocabolario del West.
La meccanica è sempre la stessa: un uomo torna nella sua vecchia casa per cercare vendetta. La Rache rientrante nel titolo tedesco (co-produzione italo-tedesca) Satan der Rache, a cui si aggiunge unatmosfera tutta nuova per unopera del genere: luomo si fa forte dei fenomeni naturali, un tornado colpisce il villaggio ed arriva al tramonto così come Hamilton, ed E Dio disse a Caino diventa una sorta di horror cupo in tono con la filmografia di Antonio Margheriti. Un regista deciso a cambiare, a dare agli occhi di Kinski (la consapevolezza), Cantafora (la paura) e Carsten (il senso di colpa) lo stesso fondo di terrore, suggerisce colpi di scena standard del genere senza però confermarli, puntando tutto su una verità poco importante se messa in confronto all’aspetto formale del film.
La macchina da presa segue il vento, inquadra nella notte la morte degli uomini di Acombar e guarda al cielo mentre dalla terra arriva lattacco di Hamilton, un Kinski il cui ingresso nel film è degno di una delle famose entrate alla Kinski dei capolavori di Werner Herzog. Intanto le musiche di Carlo Savina richiamano ai canti degli schiavi africani nelle piantagioni di cotone ed in pochi secondi si aggancia ai classici temi musicali dello spaghetti western. Conferma la non importanza dellambientazione, quanto quella della tecnica e dellomaggio cinematografico eccezionale il duello nella stanza degli specchi -, lo studio di una pellicola per dare all’universale lo spazio che merita nel genere. Un grande film, non un capolavoro, che consiglio a tutti coloro che vorrebbero iniziarsi a questo genere di cui noi italiani dovremmo andar fieri (non chi vive oltreoceano), sarete ampiamente ripagati.