Lincoln (Steven Spielberg, 2012)

Un altro incantesimo spielberghiano resuscita Abraham Lincoln.

Quanto è alto Steven Spielberg? La mia generazione è cresciuta negli anni Novanta, un decennio vissuto sotto la sua ombra, un po’’ come il piccolo Tad corre avanti e indietro giocando e stupendo suo padre Abraham nell’ultimo Lincoln.

Il sacro contro il profano

Si sente nell’aria una certa magia, ricorda Hook e allo stesso tempo Salvate il soldato Ryan, vi è un’aura di sacralità a circondare un solo uomo a cui ruota attorno il fango, la sporcizia e le strilla del Congresso degli Stati Uniti d’America.

Ma Abraham Lincoln vive nei raggi di luce, nel pulviscolo creato dalla perfezione della fotografia di Janusz Kaminski. Lui cammina ai confini dell’’azione, compare dopo ogni battaglia piegandosi sulle sue ginocchia senza rubare la scena a nessuno, senza esagerazioni, senza gesti o discorsi memorabili, senza perdere il suo calore, mostrandosi come una fiammella e non come un incendio.

La centralità dei fatti

Questo è il mio discorso, dice dopo un breve sermone senza aver elevato alcuno spirito, è umano nella sua fastidiosa ossessione di parlare per aneddoti, protagonista muto della battaglia per l’’accettazione del XII emendamento, secondo cui la schiavitù deve essere abolita.

Non ti conosco dice alla sua serva di colore Elizabeth Keckley, parla di tutti i neri d’’America senza far ragionamento o dichiarazioni toccanti. Nella sceneggiatura di Tony Kushner non c’’è spazio per la grandezza delle parole di Lincoln, subito enunciate dalle truppe dopo i primi crudi minuti di film.

Ce n’è solo per i fatti, cui va incontro con sequenze davanti a cui siamo abituati da anni a inchinarci. Non è il miglior Spielberg, è la miglior dimostrazione del suo talento di regista, per umiltà distanziatosi da una consueta rappresentazione biografica e concentratosi invece sull’a catena di eventi scatenata da lui.

Ingranaggi ben oliati

Sarà per questo motivo che la mastodontica interpretazione di Daniel Day-Lewis non prende lo schermo, un pericolo evitato quello del one man show, tant’’è che lo stesso Tommy Lee Jones supera di gran lunga il suo Presidente.

Ma il cast funziona come un sistema solare in cui tutti i pianeti dipendono gli uni dagli altri per mantenere il proprio equilibrio. Un miracolo la riuscita persino della fastidiosa interpretazione di Sally Field, ma le stelle brillano lontano e l’’intero comparto di attori, da Hal Holbrook a Jackie Earle Haley, da Joseph Gordon-Levitt a David Strathairn –non s’’impone mai sulla scena.

Soprattutto quando è la scena stessa a essere la vera protagonista con le scenografie di Rick Carter e Jim Erickson. Ci si abitua alla Camera del Congresso, al disordinato ufficio di Lincoln, un particolare contribuente al ritratto intimista di un gigante a cui verrà in futuro dedicato il Lincoln Memorial.

Il peso della Storia

Tuttavia quell’iconico cilindro pesa sulle spalle dello spettatore, difficile da reggere con la sicurezza che ci si aspetta da una produzione di Spielberg, più coraggiosa del solito al punto da richiedere degli sforzi richiesti di rado dal suo cinema.

Una sorta di cambio di strategia che d’’ora in avanti ci costringerà a vedere Spielberg sotto un’’altra ottica, più matura dei tempi dell’’Amistad. Nella corsa agli Oscar è sicuramente uno dei maggiori contendenti, pur non essendoci reale gara con l’’Amour di Michael Haneke.

Fausto Vernazzani

Voto: 4/5

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