The Shock Labyrinth: Extreme 3D (Takashi Shimizu, 2009)

di Roberto Manuel Palo.

Uno dei pochi pregi che ho potuto notare in questa pellicola è che, finalmente, ho visto i protagonisti che camminano per strada con l’ombrello per ripararsi dalla pioggia, cosa che, finora, non mi era mai capitato di vedere. Dalla banalità di questa frase capite subito che non c’è molto da salvare in questo The Shock Labyrinth: Extreme del maestro Takashi Shimizu.

Ken (Yuya Yagira) ritorna nella sua città natale dopo dieci anni di assenza e ritrova i suoi amici d’infanzia tra cui Yuki (Misako Rembutsu), una ragazza creduta morta da tutti durante la visita di una casa degli spiriti nel parco divertimenti dieci anni prima. Yuki ha dei comportamenti strani che la portano a cadere dalle scale della sua casa, ma è tutto un trucco per riportare tutti nel luogo dove, dieci anni prima, l’hanno lasciata sola a morire, in modo da ottenere la sua personale vendetta. Per Ken è il momento di far riaffiorare i ricordi.

Quando un maestro del cinema toppa il film, si tende a trovare sempre qualcosa di buono, ma in questo caso non si può far altro che essere spietati, a partire dall’analisi del titolo: se c’è scritto extreme, io PRETENDO che, nel film, ci sia qualcosa di extreme, non gente che parla e piagnucola una continuazione in compagnia di effetti digitali pessimi, di conigli che volano e di pioggia che cade su tutto il pavimento tranne che sulle persone asciuttissime. Molte volte si sfiora il ridicolo involontario e Shimizu non ci dà neanche la soddisfazione di un po’ di sangue e frattaglie.

Shimizu, dopo il capolavoro Marebito, ritorna di nuovo ai cliché che stanno portando il J-horror a decadere inesorabilmente dal punto di vista internazionale, ovvero fantasmi con capelli lunghi vendicativi, piedi insanguinati che camminano e gente idiota che, invece di scappare, ha la bocca spalancata per tre quarti d’ora che potrebbero essere utili per ritrovarsi fuori dai confini del Giappone; cliché che ormai hanno stancato chiunque, potevano far paura ai tempi di Ju-On, ma dopo l’ennesimo film uguale ti vien quasi da ridere. Uno dei pregi della pellicola, bisogna dirlo, è l’assenza totale dello scary maze con innalzamento improvviso del volume tipico dei J-horror, anche se ciò porta a non avere paura per niente durante una pellicola noiosissima che mette troppa carne a cuocere in una sceneggiatura (Daisuke Hosaka) raffazzonata e molto difficile da seguire a causa dei poco chiari cambi temporali frequenti e della continua ricerca del colpo di scena che, alla fine, non arriva mai.

A non aiutare la confezione della pellicola è la stessa regia di Takashi-san che ha tutta l’aria di essere una regia televisiva in 3D, utilizzato soprattutto per ampliare a dismisura la lunghezza dei corridoi e delle scale a chiocciola aumentando il livello claustrofobico del tutto. Secondo me inutile questa implementazione usata in questo modo, ma Shimizu ha voluto sperimentare, quindi gli si può perdonare questo uso del 3D che è il minore dei problemi della pellicola.

Anche gli attori hanno una recitazione televisiva e ciò non aiuta lo spettatore ad avere quella tensione e quell’ansia che un tunnel dell’orrore di una casa stregata effettivamente può dare, come Tobe Hooper insegna. In questo modo la pellicola si trascina, miracolosamente, sino alla fine, tra i finalmente di noi poveri spettatori che, comunque, riusciremo a guardarla tutta per capire dove voglia andare a parare con i suoi momenti ridicoli – come la continua caduta di Yuki sulla testa di Ken, che ha un significato ben preciso – ma non si può fare a meno di ridere, e questo non va bene per niente.

See You Soon.

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