di Francesca Fichera.
Smettiamola, una buona volta, di chiederci come mai si ostinano a produrre remake su remake. Lo fanno perché vogliono. Punto. Mi pare ovvio. A volte, è vero, capita che il rifacimento sia un vero scempio (non vorrei fare nomi ma, sapete, quel tale Van Sant lì, quello che ha trasformato Norman Bates in un segaiol…mi fermo, dai).
Scherzi a parte, il discorso dei remake è più complicato di come appare e necessita di uno spazio tutto suo. Il terreno su cui ci si addentra in questa precisa sede, dove ad esser protagonista è un singolo lavoro di riedizione, è già fin troppo accidentato di per sé. Si parla di horror, del resto. Il genere “rifatto” per antonomasia, i cui spunti, per una tendenza al top da non pochi anni, sono oggetto di un rimestio e di una riproposizione continui. L’esplosione di questo tipo di trend cominciava, non a caso, proprio nel periodo in cui al regista tedesco Marcus Nispel, dopo il gran rifiuto di Michael Bay (#sapevatelo), veniva affidato il remake del classico dell’orrore Non aprite quella porta, di Tobe Hooper. Uno di quei film che cambia la vita e la storia, che apre le danze (macabre), che taglia il nastro, e così via. Di sicuro la pellicola di Nispel non potrebbe rivestire lo stesso ruolo – altro giro, altra corsa. Ma prova comunque a tener testa all’ingente eredità ricevuta, e con umiltà – il che è fondamentale.
Dell’originale vengono ripresi solo il numero dei giovani protagonisti – due ragazze e due ragazzi, in partenza, sebbene si aggiunga un quinto elemento femminile lungo la strada -, l’espediente narrativo dell’autostoppista folle – nel film di Hooper uno squilibrato, in quello del 2003 una ragazza che [SPOILER] si spara in bocca [FINE SPOILER]. E, com’è logico, anche la prima apparizione di Leatherface, con l’ingresso nella casa e l’inizio delle sparizioni a catena fra le pareti sudice dell’immondo sottoscala. Mancano, invece, riferimenti espliciti al cannibalismo della famiglia di weird e l’insistenza sull’efferatezza delle visioni (e delle metafore) concepite dalla mente di Hooper.
Nispel materializza il mostro supremo in un collage di carne umana, usa il gore al posto di quelle esasperazioni visive e velate di grottesco che hanno reso Non aprite quella porta del ’74 degno capostipite di un nuovo filone dell’horror, impregnato di senso atavico di ribellione e contestazione. Il tedesco non esagera, ma si mantiene appena al di sotto della superficie, curandone in maniera estrema l’aspetto: cupe, luride e asfissianti le atmosfere ritratte da Daniel Pearl; inquietante quanto basta il gruppo di interpreti della famiglia Hewitt – come dimenticare lo sceriffo del mitico R. Lee Ermey?; e funzionale anche la Biel, nei panni della procace e resistente vittima del canonico errore da “abbiamo sbagliato strada” e “siamo degli sfigati assurdi che volevano solo divertirsi un po’”.
L’orrore in Non aprite quella porta 2003 è viscerale, non mentale. La tensione fa accapponare la pelle senza turbar la memoria con immagini difficili da mettere in archivio. A parte la fine del povero Andy (Mike Vogel), [SPOILER] appeso come un bue a un gancio della carne, con una gamba mozzata nella quale il terribile Leatherface schiaffa, senza complimenti, mezzo chilo di sale da cucina [FINE SPOILER], troverete poche ragioni per stringere i denti. Ma avrete almeno impiegato una porzione del vostro tempo guardando un remake in tutto e per tutto dignitoso.