The Woman in Black (James Watkins, 2012)

di Roberto Manuel Palo.

Ho sempre speso parole di stima per il cinema Made in UK, compreso il genere horror, ma, come per tutto, ci sono delle eccezioni. Qualche settimana fa, se ricordate, recensii un bel film sui fantasmi proveniente dalla Gran Bretagna, 1921 – Il mistero di Rookford, gioiellino completamente distrutto dal finale. Oggi andrò a parlare di The Woman in Black di James Watkins che, con una storia simile ma ambientata in età vittoriana, è del tutto rovinato dalla noia, dalle esplosioni sonore per suscitare paura non riuscendoci in altro modo, e da Daniel Radcliffe che, ventitreenne, interpreta il ruolo di un quarantenne.

La trama è molto semplice: un avvocato vedovo vive da solo con il figlio di tre anni ed è sempre triste. Il suo capo gli affida il compito di vendere una casa in un villaggio sperduto dell’Inghilterra appartenente ad una cliente defunta. Ma l’avvocato Arthur Kipps/Radcliffe, non sa che in quella casa succedono cose strane così come nel villaggio vicino. Lo aiuterà nell’esaminare la situazione un abitante del luogo, Mr. Daily (Ciaran Hinds). All’inizio del film v’è questo dialogo tra Arthur e il figlio mentre quest’ultimo mostra al padre un disegno che ritrae la tata, la mamma con l’aureola sulla nuvola, padre e figlio: “Perché ho la faccia così triste, Joseph?” “E’ la faccia che hai sempre”. Io aggiungerei anche: “Dai tempi di Harry Potter!”. E, che ci crediate o no, quella faccia non cambierà mai per tutto il resto del film: spaventato dalla donna in nero, (SPOILER!) dopo che trova il bambino nella palude (FINE SPOILER!), usando un’ascia con la speranza di poter “colpire” il fantasma. MAI! Eh, lo so che i fantasmi non si possono “colpire”, ma all’avvocato Arthur Kipps non hanno detto neanche che i fantasmi passano attraverso i muri e le porte visto che in ogni stanza si chiudeva anche a chiave. Avrebbe potuto provare con un “patronus”, magari avrebbe funzionato, chissà.

Efficace l’ambientazione vittoriana scelta da Kave Quinn e la fotografia di Tim Maurice-Jones che ha il suo apice nel contrasto bianco/nero della scena iniziale e di quella finale, due delle poche cose positive della pellicola. È nella sceneggiatura dello stesso James Watkins e di Susan Hill che il film pecca: personaggi approfonditi pochissimo, dialoghi ridotti all’osso e scontati, adibiti soltanto al riempimento della pellicola. Alcune azioni dei personaggi che potremmo definire curios”, anche se la regia, a parte l’inserimento delle esplosioni sonore, non se la cava malissimo nonostante la scelta sbagliata per il ruolo del protagonista.

Aver selezionato Daniel Radcliffe, però, ha il suo perché. La casa di produzione del film è la rediviva Hammer che ha dichiarato, tra gli obiettivi societari, di ripresentare al cinema gli horror britannici degli anni ’50-’60 (prevalentemente incentrati sulle case stregate o sui mostri come Dracula etc.). Non si tratta di remake, ma semplicemente di una rielaborazione di quelle stesse atmosfere al giorno d’oggi. Dato che in quegli horror si assumeva nel cast sempre un attore che univa le masse, ecco che Daniel Radcliffe, fresco interprete di uno dei maghetti più famosi della storia del cinema e della letteratura, diventa l’attore più adatto. Commercialmente parlando, è ovvio, il risultato è invece tutt’altra cosa.

È vero anche che, se tutto il film fosse stato come quel minuto della scena d’apertura, adesso staremmo a parlare di un capolavoro assoluto. In quella scena c’è tutto: silenzio, musica, angoscia, paura, tensione a mille, bambole, bambine e urla. Splendido, perfetto, in un minuto. Subito dopo esce Daniel Radcliffe che aspira a diventare il nuovo Nicolas Cage. E vabbè.

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