Revenge: A Love Story (Wong Ching-po, 2010)

di Fausto Vernazzani.

Non c’è vendetta più completa del perdono. Così si conclude Revenge: A Love Story di Wong Ching-po, un altro capitolo sulla vendetta scritto dal cinema orientale, questa volta di Hong Kong. A differenza dalle altre opere realizzate sullo stesso tema, Revenge è un vero e proprio ottovolante, ma non lo è per tramite di una regia veloce, un montaggio sincopato e colonne sonore a ritmi da iperventilazione, ma perché si inoltra a fondo nell’analisi della vendetta.

La vendetta è odio.
La vendetta è indifferenza.
La vendetta è amore.

Il carrello corre lungo questi binari, saltando dall’uno all’altro, unendo in un vortice mortale l’odio e l’amore tenendoli stretti con il nodo dell’indifferenza che riunisce in un solo posto due sentimenti opposti che andranno a trovare la loro conclusione nella crudeltà del perdono. Wong Ching-po, regista fino ad ora autore di film di second’ordine, verrà ricordato per aver saputo raccontare la luce nella sua doppia sfaccettatura di naturalezza e artificiosità, criticando la religione, la legge e le organizzazioni precostituite che sembrano mirare più alla distruzione che al vivere civile e all’armonia tra la gente.

E’ una società paragonabile al mostro di Frankenstein, creata in modo terribile e poi abbandonata all’utopia dall’uomo che ne è padre, ma ormai onnipresente e avvolgente che non ha bisogno di inseguire il suo padrone e può schiacciarlo dall’alto lentamente. Kit (Juno Mak) è un ragazzo semplice, un po’ stupido, ma buono, che lavora in un negozio che vende da mangiare per la strada dove Wing (Sola Aoi) passa con la nonna tornando da scuola. I due si amano e non importa se lui non è un genio e se lei ha un ritardo mentale, dove sono insieme c’è luce. Ma non è così che inizia la storia, un ragazzo uccide poliziotti e sventra le loro donne strappando i bambini che portano in grembo per affogarli nel fiume, senza metodo, ma con un coltello che ha dell’improvvisato con la premeditazione di una vendetta brutale.

Si cammina, si corre, si urla e si sanguina a ritmi rallentati scanditi da una suddivisione in capitoli. Wong Ching-po racconta una storia come fosse un romanzo e lo fa con una voce narrante che non c’è, con una serie di quadri riesce a creare nel silenzio dell’immagine un rumore che dal nulla diventa parole e si trasforma in un racconto della violenza e della vendetta espresso dai nostri stessi pensieri, senza il bisogno di sentire qualcuno che lo faccia per noi. Jimmy Wong interviene poi a desaturarlo e cancella i colori facendoli scomparire nel bianco, un colore che distrugge più del nero, una falsa maschera che ti tiene stretto impedendoti di vedere ogni altra cosa, senza il calore del buio, ma rassicurante e stordente come un calmante, il tutto associato alla religione in cui si sfocia offendendo l’umanità della persona.

Non mancano anche le scene d’azione che hanno dello spettacolare senza però voler a tutti i costi uscire dallo schermo per colpire lo spettatore, ma solo coinvolgerlo perché alla fine è tutto funzionale a una vicenda che non ha nulla di originale, ma che si trasforma in grandezza per mezzo di una regia eccezionale che lascia ben sperare per una nuova leva del cinema cinese che bisogno di nuovi giovani autori. Il consiglio è di guardare Revenge: A Love Story – ovviamente non distribuito in Italia – ma anche di tenersi stretti a qualcosa, perché la forza di molte immagini di violenza, di stupro e di sangue, saranno uno sforzo anche per i più resistenti.

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