Another Year (Mike Leigh, 2010)

Uno stralcio di vita familiare, non una storia per Mike Leigh con Another Year – di Elio Di Pace.

In solitudine, domenica scorsa mi recai in quella roccaforte del cinema d’essai che è il Fatima di Salerno. Dopo aver consumato mezzo serbatoio di benzina per trovare parcheggio, mi diressi alla biglietteria, che a pochi minuti dall’inizio del film aveva venduto sì e no cinque tagliandi. Interruppi il parroco gestore della sala da una discussione sullo stato di salute dell’Inter e acquistai il mio biglietto, che poi, dopo una trattativa vantaggiosissima intavolata dal parroco stesso, si è trasformato in “Tessera del cineforum”. Il film che io e pochi aficionados ci apprestavamo a vedere era Another Year, ultimo saggio di sociologia di Mike Leigh, presentato (e osannato) all’ultimo Festival di Cannes.

A tutti quelli che mi avevano chiesto di cosa parlasse il film, risposi (evincendolo dalla minima dose di informazioni raccolte negli ultimi mesi) chi trattava di una storia senza plot, di un racconto senza trama. In pratica ci sono (non ridete) Tom e Gerry (ma sì, va’, ridete, è simpatica la cosa), una più che perfetta coppia di sessantenni, lui geologo lei psicologa, che abitano una deliziosa villetta a Londra, che lasciano per pochi giorni alla settimana per andare a curare il pezzo di terra che circonda la loro casa di campagna. Ruotano intorno a loro il figlio Joe, ragazzotto che i genitori sono ansiosi di vedere accasato; Mary, problematica e nevrotica segretaria dello studio dove lavora Gerry;  Ken, amico d’infanzia di Tom, colpito da lutto familiare e in predicato di costruirsi una vita nuova; Ronnie, triste fratello di Tom che rimarrà vedovo; Carl, figlio violento di Ronnie; Katie, dolcissima metà (da un certo punto in avanti) di Joe.

Pranzi, cene e tè delle cinque sono i momenti in cui questi personaggi si ritroveranno insieme, abbracciati dal calore di Tom e Gerry, i quali cercano in ogni maniera di essere comprensivi, disponibili e generosi, con un effetto stranissimo sullo spettatore: si finisce per non stare dalla loro parte, l’immarcescibile serenità del loro rapporto diventa quasi antipatica (nonostante l’effettiva bontà dei coniugi, per cui è fondamentale la prova d’alta scuola di Jim Broadbent e Lesley Manville), e ci si identifica molto di più con i personaggi di contorno, e i loro personalissimi disagi.
Per raccontare e cercare di comunicare tutto questo, Mike Leigh ha parlato della suggestione scespiriana dello “specchio davanti alla natura”: 129 minuti di dialoghi che più semplici e quotidiani non si può, talmente ordinari da sembrare, invece che scritti, improvvisati (e molto probabilmente lo sono: Leigh e i suoi attori sono grandi amici da molto tempo). Uno spirito d’osservazione che a tratti arriva addirittura a essere stucchevole: i personaggi parlano di tutto e di più, e in alcuni casi fanno discorsi di cui allo spettatore potrebbe effettivamente non importare nulla. Lì si sente olezzo di prolissità, ma forse è solo mimesi.

Comunque, è la magia dello spiare non visti un “gruppo di famiglia in un interno” la forza del film: in un certo senso è come essere lì, e dentro nasce l’impulso di mandare a fare in culo Mary, quando comincia una cantilena infinita dopo aver scolato litri di vino, oppure dare una pacca sulla spalla a Ken nei momenti di disperazione.
A scandire il film ci sono le quattro stagioni (con le loro luci e i loro colori, giostrati elegantemente da Dick Pope), e alla fine, quando “un altro anno” è passato, viene in mente l’icastico incipit di Anna Karenina: tutte le famiglie felici si somigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

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