Pixels - CineFatti

Pixels (Chris Columbus, 2015)

di Fausto Vernazzani.

Pixels è davvero un brutto film, non c’è bisogno di girarci intorno, né è una sorpresa, bisogna essere sinceri. Chiunque abbia mai visto o conosca anche solo per sentito dire Adam Sandler, sa che il 90% delle commedie cui prende parte sono da ascrivere alla lista dei peggiori film dell’anno (multiple candidature ai Razzie Awards per ben 10 edizioni), il restante 10% può tanto includere qualità (Men, Women & Children) quanto il nulla (Funny People). Dunque, perché esser così sorpresi del risultato di Pixels, uno dei peggiori film mai diretti da Chris Columbus?

Sembra quasi che la video-recensione di MovieBob, stracolma di insulti di ogni tipo nei confronti degli autori, andata virale a pochi giorni dall’uscita del film negli USA, abbia scatenato il desiderio di stroncare senza alcuna pietà un film di cui nei prossimi giorni ci saremo già dimenticati. Pixels è l’adattamento di un cortometraggio di Patrick Jean, poco più di 2 minuti in cui si vedono vecchi videogame distruggere la città di New York, riducendola in pixel, per l’appunto. Nessuna storia, solo un’idea sfiziosa dove non si vede in faccia neanche un singolo essere umano.

Alla Sony quel brevissimo corto dev’essere piaciuto molto e così è finito nelle mani di Columbus e Sandler, nelle vesti di produttore, come spesso accade, portatosi dietro un suo caro amico e collega, Kevin James, come co-protagonista. E al nulla si aggiunge una storia: Sam/Sandler nel 1982 perde al campionato mondiale di videogiochi, durante il quale viene annunciato l’invio di esemplari di arcade nello spazio, e la sua vita da quel momento sembra destinata a non avere alcun senso. Tempo presente, il suo amico Cooper è il presidente degli USA e lui un mero tecnico per un’azienda.

Questo finché l’invasione non ha inizio: gli arcade spediti nel 1982 dalla NASA sono scambiati per una dichiarazione di guerra da una razza aliena con l’intenzione di colpire per prima. Come? Semplice, sfidando gli umani a quegli stessi giochi con cui credono di essere stati minacciati. Ed ecco come e perché la vita di Sam subisce un ribaltamento, trovandosi fianco a fianco con altri grandi giocatori del 1982, interpretati da Josh Gad e Peter Dinklage, a battersi contro il nemico, loro, gli unici a sapere come sconfiggerli. A quanto pare i vincitori delle altre edizioni sono tutti morti.

E questo è uno dei primi dubbi: nel 1981 nessuno ha vinto il campionato? E nel 1983? No, Sam e i suoi compari sono i soli a potersi unire alla battaglia e una motivazione non viene data, ma dopo pochi minuti dall’inizio di Pixels si era già capito che la razionalità non era parte dello schema. Il film di Columbus ha un solo enorme difetto: è affrettato, all’apparenza si direbbe poco ragionato, realizzato in fretta e furia per incassare qualche milione, con numerose lacune nella sceneggiatura, così tante da non poter neanche essere elencate tutte. Ogni minuto un nuovo errore, incredibile.

Il perdono può in parte giungere causa difficoltà nel trasporre un soggetto così bizzarra in un lungometraggio, tuttavia pare che lo scopo fondamentale degli sceneggiatori Tim Herlihy e Timothy Dowling fosse solo buttar giù qualche gag qua e là ispirandosi ai videogame d’annata conosciuti da quasi ogni spettatore. Abbiamo Pac Man qua, Donkey Kong là, un Puffo canterino di su e un Q*bert di giù, ognuno col suo piccolo sketch scollegato l’uno dall’altro, sguinzagliato dal bistrattato plot centrale, tanto fragile da non meritare neanche di essere memorizzato, creerebbe solo confusione.

Viene piuttosto da chiedersi cosa ne sarebbe potuto uscire se si fossero dedicati un annetto in più, non chissà quanto, alla stesura del testo, considerare meglio i legami tra i personaggi, non trattarli come barzellette. Le idee in fin dei conti ci sono: il laboratorio segreto delle forze armate, un Presidente più umano di tanti altri, il rispetto per i videogame. Ma niente, sembra che a Columbus poco importi, del resto quando dirigi Sandler sai già che avrai un Razzie sul camino, così poche sono le aspettative. Può darsi che Sandler stesso non se ne importi. Tanto incassa sempre abbastanza.

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