di Fausto Vernazzani.
Se volete un mal di testa Shane Abbess sa come farvelo venire: in Infini siamo nel 2300, il 93% della popolazione vive sotto la soglia della povertà e le grandi corporazioni hanno lucrato sulla loro pelle grazie all’invenzione dello slipstreaming, una tecnica che permette di inviare il corpo umano ovunque nello spazio suddividendolo in minuscoli pacchetti digitali.
Un mezzo pericoloso come ogni altro di natura informatica, il rischio di corruzione di dati è alto e chiunque accetti di far parte dei team militari che fanno uso dello slipstreaming sa che lo stipendio è alto per questo motivo: la morte li attende.
Whit Carmichael è al suo primo giorno, gli hanno appena installato l’apparecchio e, poco prima di tornare a casa dalla moglie incinta del loro primo figlio, si trova nel caos più totale: l’intero suo squadrone è decimato da un contagio violento, una malattia contratta su Infini, la colonia più lontana dell’universo, dove un uomo è pronto a lanciare sulla Terra un temibile ordigno nucleare.
E Whit è fuggito lassù, per errore, e ora non gli resta che attendere la squadra della East Coast per essere liberato. Oppure morire sotto i colpi dei suoi compagni e del virus che infesta Infini.
Sappiate che tutto questo accade nei primi venti minuti di Infini (110 in totale), chissà cosa diavolo avevano in mente il regista Abbess e il co-sceneggiatore (e compositore) Brian Cachia: è così tanto da mandar giù in pochissimo tempo che gran parte degli elementi si incastrano nell’esofago e non ne escono più.
Rimaner soffocati dall’eccesso di dettagli con Infini è un rischio enorme, ma accettabile. Abbess consente di digerire l’immensa mole di dettagli narrativi con calma. Anziché spalmarli lungo l’intero film decide di buttarli giù tutto d’un colpo senza creare confusione di scena in scena.
Si rivela essere una scelta coraggiosa e indovinata, permettendo a se stessi di dilungarsi in quanto gli spettatori sono venuti a cercare in e su Infini: azione e orrore. Si tratta infatti di un horror sci-fi dal tocco retrò che non ha paura di citare Alien (l’organismo perfetto è un omaggio evidente) né di rifarsi al più recente Serenity di Joss Whedon, passando per l’orrore filosofeggiante del cult Event Horizon (in italiano conosciuto come Punto di non ritorno).
Da ognuno di essi Abbess prende a piene mani e ne trae qualcosa di personale, anche se non originale, lasciando un ricordo capace di non mescolarsi al resto.
E dal nulla spunta Daniel MacPherson, il nostro Whit, dotato di un carisma fuori dalla norma che ci auguriamo gli permetta una solida carriera cinematografica in Australia e oltre. Ma se vogliamo parlare di difetti è proprio rimanendo all’interno del cast e dei personaggi che li troveremo: è davvero poco il tempo concesso per imparare a conoscerli uno a uno, nonostante con intelligenza Abbess li abbia identificati con accenti ed etnie diverse, immediatamente riconoscibili. Purtroppo non si riesce neanche per un istante a percepirli come reali e solo per questo Infini non colpisce fino in fondo.
Scendendo sul piano tecnico è impossibile riscontrare alcun errore: la fotografia di Carl Robertson accresce la forza visiva della stazione Infini dandogli carattere, le scenografie di George Liddle sono originali a sufficienza da non creare ancora una volta un’imitazione della Nostromo di Ridley Scott e le musiche di Cachia sono da far accapponare la pelle.
Potremmo andare avanti così per ore, il risultato finale sarà sempre a favore di Infini, un film che conquista gli onori con furbizia e una gran dose di ambizione. Possiamo essere certi di essere di fronte a una delle grandi sorprese della fantascienza del 2015.
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