Il mito robotico di Asimov incontra lo stantio Automata con Banderas.
L’esplicita ispirazione ai romanzi di Isaac Asimov si può dire sia arrivata solo con Io, Robot, l’action di fantascienza con Will Smith di un decennio fa, ma la sua influenza sul genere la si può datare agli albori delle sue pubblicazioni.
Le celeberrime leggi della robotica sono un must e la loro ultima apparizione, seppur incompleta e travisata, arriva dalla Spagna con Gabe Ibáñez nell’ambizioso post-apocalittico dove umani e robot convivono in enormi e tristi megalopoli, Automata.
Un po’ Dick, un po’ Asimov
Le due forme di vita non dividono gli spazi con piacere, in particolare perché ai creatori non piace l’idea che i robot possano sviluppare un’intelligenza, al punto da istituire due semplici regole, e qui sta il rimando all’autore di Abissi d’acciaio.
Non possono in alcun modo far danno agli esseri umani e gli è vietato modificarsi. L’agire sul proprio corpo meccanico è quanto aiuta i robot a sviluppare la propria personalità e pertanto a divenire a loro modo “umani”.
Sviluppano una coscienza attraverso la consapevolezza del proprio corpo e la capacità di individuare gli elementi da modificare per comunicare se stessi, distinguersi dal prodotto realizzato in serie dagli umani per svolgere un singolo scopo.
Per chi sceglie di non vivere nella schiavitù a cui sono obbligati cè una sentenza di morte eseguita da una sorta di blade runner di natura dickiana.
Ma il nostro protagonista è un agente assicurativo della Robotic Corporations, Antonio Banderas, l’uomo designato a risolvere i casi di robot che violano i protocolli.
Vademecum dei cliché
Cè poco da aggiungere sulla trama, Automata fa un uso smodato dei cliché (umani spietati, sex-bot illegali e tutto il repertorio A.I. e Robot) in ambienti il cui fascino si esaurisce letteralmente nel giro di una manciata di minuti.
Ibáñez però non calca la mano sui cliché, e questo gli fa onore, ma purtroppo annoia, e neanche poco. In particolare lo spettatore abituato allo schema ormai noto dell’uomo che scopre l’umanità in qualcosa che umano non è.
Di intelligenze artificiali se n’è discusso così tanto sul grande schermo, sul piccolo non ne parliamo (Star Trek, Person of Interest sono maestri in materia), e la sua rappresentazione appare fin troppo simile a quell’Io, Robot di Alex Proyas: insomma, uno script che prende a piene mani da un paio di classici e una grafica poco accattivante ad aggravare la situazione.
Un pizzico di dignità
Automata non esce fuori con dignità da questo freddo e necessario calcolo. Possiede poche qualità, una di queste è il buon Banderas in un ruolo diverso dai suoi soliti per cui potrebbe essere ricordato anche con piacere, ma sono purtroppo slegate tra loro.
La coesione non è di casa nel film di Ibáñez.
Gli attacchi tra le scene sono realizzati con colla scadente, si salva solo la mezz’ora finale dove, come molta fantascienza, sfocia nel western vero e proprio e tocca lo zenit: la creazione di una nuova forma di vita, evitando il sensazionalismo e puntando a una gradita naturalezza, potremmo dire persino commovente. Un realismo apprezzabile che ci permette di non essere poi così cattivi nel giudizio finale.
Fausto Vernazzani
Voto: 3/5