Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate (Peter Jackson, 2014)

di Fausto Vernazzani.

In questi tre lunghi anni Peter Jackson ci ha ferito al cuore. Lo avevamo amato così tanto con la trilogia de Il signore degli anelli, eravamo persino riusciti ad apprezzare il kolossal King Kong e a perdonargli le ingenuità di Amabili resti, ma adesso, con la tripletta de Lo Hobbit sarà davvero difficile riuscire a riaccoglierlo tra le nostre braccia. Dal suo inizio due anni fa a oggi è stata una progressiva caduta nel ridicolo, una discesa inarrestabile conclusasi col rumoroso schianto dell’ultimo capitolo, il “definitivo”, come da locandina, Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate.

A partire dal 2012 a oggi ci siamo già dilungati sulla pessima idea di allargare l’adattamento di 300 pagina a tre film, ma è come se non fosse mai abbastanza: da Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato, passando per Lo Hobbit: La desolazione di Smaug, al recente Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate il difetto principale resta sempre lo stesso. Era davvero necessario aggiungere tante sottotrame a un libro di per sé abbastanza sottile? La risposta la conosciamo già e Jackson ne paga le conseguenze proprio sul finale, 144 minuti in cui non si riesce a comprendere chi sia il protagonista.

Il titolo dovrebbe dire tutto: è Bilbo Baggins/Martin Freeman il principale, eppure per oltre un’ora sembra esserlo il leader di Pontelagolungo Bard/Luke Evans e solo verso la fine il focus ritorna su Thorin Scudodiquercia/Richard Armitage prima di cedere lo scettro al legittimo proprietario Bilbo. Se pensiamo ai nove protagonisti de Il signore degli anelli saremo sopraffatti dalla nostalgia contro i 13 nani – molti dei quali hanno pochissimi minuti di presenza scenica e zero battute – Bard, Gandalf, Legolas, Bilbo, Tauriel, Thranduil. La vera battaglia è contro le sottotrame invasive da cui il pubblico è inevitabilmente sommerso.

Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate

Per capire di cosa stiamo parlando scendiamo a patti col plot: Smaug è fuggito da Erebor e rade al suolo Pontelagolungo finché Bard non riesce ad abbatterlo. Ora l’area è al sicuro e gli uomini viaggiano verso Erebor in cerca di rifugio e del proprio compenso, così fanno gli elfi di Thranduil/Lee Pace, per ritrovarsi le porte della Montagna Solitaria sbarrate da un Thorin annebbiato dal male del drago, un’avarizia serpentina. Intanto gli orchi di Azog il Profanatore/Manu Bennett sono pronti all’assalto: due armate si avvicinano e a nulla servono gli avvisi di Gandalf (forever alone), la Montagna è a rischio.

Dopo un’ora in cui Thorin gioca a far Zio Paperone con Paperoga (Bard) e Paperino (Thranduil) fuori a batter cassa, inizia l’epico e incomprensibile scontro. Ma niente paura, perché Lo Hobbit: La battaglia delle cinque armate poteva anche intitolarsi Deus Ex Machina: The Movie. Infinite carrellate di scene piene di terrore in cui ci si chiede se il personaggio in difficoltà di turno si salverà mai per un paio di secondi prima che la musichetta di Howard Shore introduca un salvatore a caso… tranne quando fa comodo e allora tizi a due centimetri l’uno dall’altro non si capisce come si siano improvvisamente separati e allora ecco il FAIL assoluto.

Legolas/Orlando Bloom è Highlander, puoi sbatterlo contro un muro cento volte, ma lui si alzerà sempre in piedi come se niente fosse, Galadriel/Cate Blanchett sembra sia capace di sconfiggere Sauron e i Nazgul tutti insieme prima che un videoclip dei Rammstein abbia inizio, Tauriel/Evangelin Lily sfodera l’incredibile arma delle lacrime ogni due secondi, Bard è una sorta di Fantaghirò sempre in corsa per salvare la sua famiglia/Romualdo, Gandalf fuma erba e sorride senza motivo in un momento tragico quando allo spettatore non è neanche dato conoscere l’esito della battaglia dopo 50 minuti di botte da orbi in cui non si percepisce neanche lontanamente un minimo di pathos: dov’è l’ansia se tanto Thorin e suo cugino possono abbracciarsi e scambiare quattro chiacchiere mentre attorno a loro elfi e nani sono fatti a pezzi?

Per non parlare dei dialoghi, o meglio, rapidi scambi di battute in cui tutto sembra fuori posto: se uno dice che ora va a cena non gli rispondi sparando una citazione a caso dalla trilogia principale. Questo solo perché Jackson e gli sceneggiatori dovevano a ogni costo infilare qualche benedetto riferimento a Il signore degli anelli, tra l’altro a volte incompleti. Ci sarebbero tanto altro da incenerire, ma ci dilungheremmo troppo e rischieremmo di rimanere per l’eternità con l’espressione da facepalm di Balin. È finita.

 

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