L'intrepido (Gianni Amelio, 2013)

di Fausto Vernazzani

La figura fatta dall’Italia con quest’ultima edizione della Biennale Cinema è da dimenticare, appena surclassata dal grande successo del Festival Internazionale del Film di Toronto, conclusosi con la vittoria del People Choice Award di 12 Years a Slave, nuova opera di Steve McQueen, tanto voluta dal Direttore Artistico Alberto Barbera, ma rifiutatagli per l’offerta più vantaggiosa di un mercato e di una premiere Nord Americana tra il Telluride e Toronto. Non per questo è giusto denigrare i concorrenti italiani alla 70esima edizione del Festival più antico del mondo.

Gianni Amelio da tanti anni lo possiamo considerare come uno dei nostri migliori rappresentanti, vincitore del FIPRESCI proprio due anni fa al Festival di Toronto, dove quest’anno il polacco Pawel Pawlikowski ha catturato il suo premio internazionale della critica con Ida. Ma il nostro Gianni Amelio ed il suo L’intrepido sono tornati a mani vuote da entrambe le manifestazioni.

Voleva fosse una favola la storia di Antonio Pane, un fantastico Antonio Albanese, per nulla a disagio nonostante il suo ruolo non fosse stato scritto con la necessaria arguzia ed intelligenza, ma L’intrepido con rapidità diventa l’esatto opposto di ciò che racconta il titolo: è un uomo deciso a vivere la vita in maniera sconsiderata accettando, tramite una losca organizzazione di stampo camorristico, di fare da rimpiazzo per tutte quelle persone ammalate, stanche o assenti per mancanza di voglia dal loro posto di lavoro. La verità arraffata da Gianni Amelio fa male, le assenze sono un problema tutto italiano, riparato con una toppa da Antonio, padre esemplare di un figlio disilluso con l’amore per la musica Jazz, vicino generoso di una famiglia di extracomunitari, “dipendente” umile e gentile d’un capo grottesco, ex-marito perfetto e amico straordinario di Lucia, il ritratto della depressione e repressione delle nuove generazioni.

L'intrepido

Consegna pizze, ci sa fare col cucito e in una sequenza-citazione di Tempi Moderni emula Chaplin gestendo da solo una camiceria, indossa i panni di un pupazzo per divertire i bambini di un centro commerciale, vende rose nei ristoranti e ripulisce uno stadio, il tutto per pochi soldi e zero dignità. Il tempo necessario per dare un’immagine ben precisa all’Italia attraverso Antonio Pane è davvero poco, la sua è una metafora, una favola mal riuscita – o mal riuscito è il tentativo suo di dargli tali vesti – di come il bene non sempre sia da guardare come qualcosa di positivo, ma la ferita dei denti, del morso drammatico dato dal colpo di scena a metà film e dalle crisi isteriche di Ivo (Gabriele Rendina), suo figlio, tarda a far uscire il sangue, lasciando che sulla superficie de L’intrepido rimangano a galla solo le tristi freddure e i dialoghi arrugginiti.

La “scoperta” del pop inglese e della lingua britannica stessa, con l’ennesima battuta sulla traduzione del nome dei Fab 4, gli “Scarafaggi”, gli scherzi sulla difficile lettura del nome dell’autore egiziano di Chicago, Alaa-Al-Aswany, ed un tête-à-tête un po’ patetico dove Albanese recita un monologo sull’amore con una vecchina all’apparenza catatonica. Sono sequenze tristi, incapaci di far respirare la leggerezza che avrebbe dovuto dominare L’intrepido così da render ancor più traumatico il passaggio alla fuga in Albania per trovare un lavoro (l’opposto de Lamerica), l’umiliazione di vender rose al secondo marito della sua ex-moglie o la brutta sorpresa che gli riserverà la Lucia di Livia Rossi. Per un passo falso Gianni Amelio non può essere bollato come regista di serie B, ma di sicuro L’intrepido non lo vedrà nelle liste dei migliori film italiani dell’anno, né tra i migliori della sua stessa filmografia, per quanto Bernardo Bertolucci abbia insistito nel dire che tal film sia più volte stato nominato dalla giuria internazionale della sofferta 70esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

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