Da film a video con la Delhi Dance – di Fausto Vernazzani.
Nel corridoio dun ospedale in Russia si crea una bolla in cui il tempo scorre allindietro e la storia prosegue in avanti. Non cè altro luogo allinfuori di una delle tante panchine duna sala dattesa. Lì vè seduta una ragazza, ballerina, bella, in attesa di sapere sua madre come sta, finché la notizia della sua morte non la colpisce, ma lassurdo vuole che il suo interesse cada più su Andrej (Igor Gordin, il migliore tra tutti), uomo sposato di cui è innamorata, di cui parla alla sua amica critica teatrale.
Il Film 1 finisce dopo pochi minuti, il Film 2 inizia, continua da dove il primo è finito, ma il tempo torna indietro, Delhi Dance comincia ad andare in loop, ma tutto cambia di volta in volta, anche chi è vivo e chi è morto. In concorso nella sezione cinemaXXI, il film del russo Ivan Vyrypaev è di certo sperimentale, ma ben poco cinematografico.
Composto da 7 Film diversi, Delhi Dance si perde nella narrazione di esistenze il più lontano possibile luna dallaltra, ma unite da uno spazio entro cui ruotano in eterno come dei pianeti intorno ad un Sole, si muovono con discrezione, ripetono le stesse battute, ma vivono in una crescita solo mentale e spirituale, capendo dove le loro esistenze sono destinate a chiudersi: meglio vivere male la propria vita che bene quellaltrui, sostiene la critica, moriremo tutti dice invece linfermiera, il silenzio è doro secondo Andrej. Quello su cui son tutti daccordo, almeno coloro che ne hanno esperienza, è che la danza di Delhi, un ballo portato dalla ragazza direttamente dalla capitale indiana, è un atto performativo così bello da far dimenticare chi sia il colpevole dogni cosa, da spingere le persone che vi assistono a ricercare una comprensione più alta del mondo e delle cose.
Girato quasi del tutto in soli campi totali e campi e controcampi di primi piani, il video – perché in altra maniera non si può definire – di Ivan Vyrypaev, finisce col rappresentare più unopera teatrale che altro, un esperimento riuscito nel suo genere, nato con unottima idea, terminato senza suscitare nulla più che interesse nei confronti del momento di genio del regista.
Il cast è solido, i protagonisti funzionano e la contrapposizione di tempo ed eventi è brillante, ma dopo aver vissuto la formula proposta già due e poi tre volte, si perde lattenzione, sfociando in tuttaltri pensieri che non riescono a collimare con i grandi discorsi filosofici tenuti dai protagonisti. Ci si può sentire affascinati da tutti i modi di assistere alla bellezza della vita, agli orrori dellesistenza e alla consapevolezza di non aver vissuto, aforismi vengon fuori dalle bocche dei personaggi come proiettili da una mitragliatrice, ma il risultato è uno ed uno solo: confusione.
Non tra i peggiori prodotti visti al Festival romano, nemmeno tra i migliori della sua sezione, il cinemaXXi, in cui si son visti i migliori film di questa VII edizione, tra cui anche un capolavoro epocale come Il regno delle carte di Q.
Ivan Vyrypaev è un chimico vincente, creatore duna composizione straordinaria, ma incapace di sfruttarla al meglio, autore di un format che si spera venga preso da qualcun altro per poterlo utilizzare al fine di creare qualcosa di veramente interessante, che possa mantenere alta l’attenzione dello spettatore senza farlo cascare in un abisso di asettiche illuminazioni.