J. Edgar - CineFatti

J. Edgar (Clint Eastwood, 2011)

Innamorati di J. Edgar.

Clint Eastwood ha una passione dichiarata per la storia co i suoi protagonisti e angoli bui, ma al contrario di buona parte dei suoi colleghi individua gli aspetti sentimentali con un occhio di falco davvero ammirevole.

Stando alle aspettative comuni J. Edgar avrebbe dovuto essere un biopic sul fondatore della Federal Bureau of Investigation, la FBI delle t-shirt in vendita pure dove nessuno riconosce l’acronimo, ovvero John Edgar Hoover.

E il caro Leonardo DiCaprio supera se stesso.

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Ci immaginavamo la storia del percorso che portò Hoover all’istituzione dell’organo di giustizia più famoso al mondo e tanto abbiamo avuto, ma Eastwood non ha chiamato Dustin Lance Black per questo.

Sotto il vestito il cuore

Lo sceneggiatore di storie su personaggi omosessuali, vincitore dell’Oscar alla miglior sceneggiatura per Milk è al fianco di Clint per una ragione ed è chiara come il sole nella de-costruzione dei fatti alla luce del sole.

Sotto il distintivo lucido Black e Eastwood scivolano e con delicatezza e una dolcezza inaspettata per la storia di un uomo duro e corazzato dal mondo in cui si è barricato tirano fuori dalle storielle il cuore dell’esistenza di Hoover.

Dalla maniacalità di un giovane iper-protetto sin dalla più tenera eta da una madre fin troppo apprensiva e invadente (Judi Dench) alla genesi di un trittico universale dell’animo umano: egoismo, ossessione e amore.

Il trittico di Hoover

L’egoismo è l’ingrediente principale da cui scatta la scintilla della narrazione, quella di un Hoover anziano che scrive la sua autobiografia modellandola sui contorni della propria immagine, ideata come uno scudo contro le sferzate di media e Kennedy a causa di registrazioni ottenute illegalmente.

L’ossessione è il suo desiderio carnale di essere sempre al centro e prevalere, soddisfare l’enorme carico di responsabilità caricatogli sulle spalle sin da bambino dalla madre, tema centrale sfociato nella feroce caccia all’uomo che rapì il figlio dell’aviatore Charles Lindberg.

L’amore è in fondo alla corsa ma in termini di importanza è il numero uno. Siamo di fronte a una storia d’amore prima che a un biopic, atipica come non mai perché Eastwood anziché dare centralità al solito calore umano rappresenta l’affetto col suo esatto opposto, una innaturale freddezza.

 

Prima i sentimenti

Hoover scrive lettere diffamatorie contro Martin Luther King. È un uomo spregevole, asociale, ma è appunto un uomo e come chiunque altro è soggetto alle mire dell’amore e qui si chiama Clyde Tolson (Armie Hammer), il suo protetto e braccio destro per la vita.

Nessuna voglia di fare scandalo o parlare di omosessualità, Eastwood dirige una storia dei semplici sentimenti negli sguardi sfuggenti di due persone, della dolcezza di un bacio sulla fronte e della sua splendida irrazionalità.

Finale commovente e illuminante come pochi.

Abbracci

Il regista dagli occhi di ghiaccio rincorre l’elemento poetico come fece tra le onde dello tsunami di Hereafter e lo ritrova in un’altra “situazione” complessa come un uomo non certo ricordato per le sue attività umanitarie.

Andate al di là del trucco posticcio e seguite DiCaprio mentre si illumina e diventa reale per davvero solo quando è sotto gli occhi dell’amore della sua vita, brillantemente interpretato da Armie Hammer.

Se Hitchcock avvicinava la cinepresa nei momenti di pathos, Eastwood si allontana per dare alla cornice dell’inquadrature l’immagine di un grande abbraccio che unisce i protagonisti separati dal pregiudizio.

Eastwood è questo adesso: un regista, un abbraccio.

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Fausto Vernazzani

Voto: 4.5/5

10 pensieri su “J. Edgar (Clint Eastwood, 2011)

  1. La commozione al pensiero di questo film è ormai standard, ci si deve abituare come ci si abitua a respirare. E’ uno schiaffo morale a chi si permette di dire che il cinema non riesce più ad emozionare. Per parafrasare Norma Desmond potremmo dire che il cinema è ancora grande, è il cuore della gente che è diventato piccolo!
    Faust

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  2. A me il film, tutto sommato, non è piaciuto. Ed è stata una delusione, perché Eastwood mi aveva finora quasi sempre convinto. In questo caso invece il ritratto di Hoover mi sembra riuscito solo a metà: il tentativo di definirne la personalità paranoica – di fatto costruita sull’invenzione e lo spiegamento di forze nell’annientamento del nemico turno (radicali, comunisti, gangster etc.); l’identità contraddittoria – le fragilità del J. Edgar privato: l’ambiguo rapporto con la madre, lo stesso incerto orientamento sessuale, le difficoltà di espressione, sistematicamente, e dolorosamente, rimossi nell’immagine del J. Edgar capo del FBI; e l’attenzione, sullo sfondo, ai processi di definizione della stessa coscienza collettiva americana – cui Edgar anticipa nemici e antagonisti, e consente così di scoprirsi unitaria e compatta – sono tutti spunti molto apprezzabili ma clamorosamente annacquati, nella narrazione, da un enfasi e un tono da melodramma buoni per una pellicola di second’ordine. Alcune scene, onestamente, sfiorano il ridicolo. La scazzottata tra Tolson e Hoover, con bacio e dichiarazione d’amore finale, Hoover che indossa i vestiti della madre, la coda della storia, ancora con Tolson e Hoover protagonisti, mi sono parsi episodi così artificiosi da inficiare tutta la storia e impedire una partecipazione emotiva dello spettatore alle vicende descritte. Infine credo che il film non sarà certo ricordato per l’abilità dei truccatori; Tolson invecchiato, per esempio, non si poteva guardare.

    Lucia

    P.S. Complimenti per il blog. Lo leggo spesso, ma non ho sempre modo di commentare. :)

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  3. Lucia, su certe cose mi trovi d’accordo, la scena di cross-dressing era inutile e il trucco di Hammer era abbastanza pietoso, ma al contrario di te, quello che tu trovi artificioso io trovo che sia l’essenza del film, la volontà di descrivere un amore nato in seno ad un uomo da cui tutto ci si poteva aspettare, meno che quello. Per me tutto il resto era un contorno e in effetti quando Tolson nega buona parte degli eventi che sono stati raccontati da Hoover un po’ conferma questa cosa, sottolinea che l’unica cosa vera erano quei momenti artificiosi, ma in effetti in molte relazioni succedono spesso le cose più banali e semplici, alla fine con l’amore si torna ad un’infantile irrazionalità che porta a fare gesti semplici, esternamente stupidi, ma che dall’interno sono invece qualcosa di grande ed io ho visto questi elementi sotto questo punto di vista. Più che un biopic è una storia d’amore, è un inganno come film, parte con un presupposto per poi spiazzare lo spettatore e portarlo su un binario completamente inaspettato, ma che si è sempre seguito, solo che non ce ne si è accorti, pur avendo avuto diversi segnali surreali che dovevano far capire di cosa si stava realmente parlando e solo nell’ultima mezz’ora viene tutto fuori!

    Per i complimenti ti ringrazio, e ne approfitto per ringraziare anche Nick :D

    Faust

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  4. Eastwood continua a sbandierare su pellicola la malattia del suo paese. Il male latente che affligge l’America si estende a macchia. L’innocenza di un bambino è smembrata di ogni valore (Changeling), dicasi lo stesso per Gran Torino dove la tradizione scompare sostituita dalla malattia del caos e nello splendido J. Edgar Di Caprio (mai bravo come in questo personaggio) incarna la genesi dei mali d’oltreoceano. Il contorno è ben dipinto ma fa da sfondo ad un grigiore in fieri che avanza. Eastwood propone una soluzione? Fortunatamente no ma è convinto fortemente che attraverso la purezza dei sentimenti e la sincerità dei legami qualcosa può cambiare.

    Orazio M. Di Martino

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    1. Sono d’accordo con la tua breve analisi Orazio, specialmente con le due ultime righe. Nessuna soluzione, di conseguenza nessuna presunzione, ma una forte convinzione che i sentimenti, qualunque essi siano, possano tenerci saldi!

      Faust

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