Matteo Garrone fra sogno e reality.
Ho conosciuto il cinema di Matteo Garrone con L’imbalsamatore (2002), quell’incubo realistico in cui il carismatico Ernesto Maiheux si trasformava in un piccolo demone geloso sempre al limite fra il desiderio e la morte.
I dialoghi accesi, i volti macchiati dall’ombra su sfondi sporchi e verdastri di acqua e muschio, non poterono far altro che spingermi avanti nell’esplorazione della sua filmografia, aprendo gli occhi su Primo amore (2004) e sulla nuova mistura di eros, thanatos e angoscia che fluiva dai suoi quadri immobili e perfetti.
Primo amore
Il lato distruttivo dei sentimenti emergeva stagliandosi contro un mondo dallo squallore millimetrico e, a suo modo, affascinante.
Il brutto sogno che la realtà spesso tende a diventare – fatti di cronaca, quindi veri, riplasmati dalla macchina della finzione – assumeva le caratteristiche di un dipinto grande e malinconico, popolato da sagome scure simili a fantasmi i cui unici moventi risiedevano nella violenza e nella follia.
Il Garrone di quel biennio era già diverso, fortunato, con budget più abbondanti che gli consentivano di fomentare il suo maniacale perfezionismo e il taglio paesaggistico delle sue visioni, figlio della precedente formazione nel documentario (Bienvenido espirito santo, Oreste Pipolo fotografo di matrimoni) cui dobbiamo quei totali a perdita d’occhio e di minuti che puntellano ogni sua storia filmata.
Gomorra
E della neorealistica (e criticatissima) Gomorra (2004) rimangono sì impressi Pasquale il sarto, gli “sciuscià” della camorra Marco e “Pisellino”, i lividi da proiettile sul corpo del piccolo Totò e le “pesche fracete” di Franco e Roberto.
M anche e pompe di benzina abbandonate sotto un cielo ostile al pari della terra, il nero delle grotte e dei sotterranei delle Vele e, forse più del resto, la distesa di sabbia di Mondragone, su cui tramontano tutti i soli del mondo. Non v’è giudizio che la realtà non si dia da sé, fotografandosi (grazie anche al talento immortale del compianto Marco Onorato).
Dopodiché Garrone ha cominciato a essere narrativo nel senso più tradizionale del termine. A unire i frammenti, introdurre una storia facendo rumore (anche perché la storia stessa è rumorosa come i suoi personaggi) e a mostrarci come anche il reale, prima di essere da lui trasformato in visione onirica, può rivelarsi a sua volta uno dei “peggiori sogni possibili”.
Reality
Ed ecco che Reality (2012), pure se in ritardo sui tempi, attraverso la variopinta vicenda del pescatore Luciano (Aniello Arena) ci parla delle ossessioni e delle aspirazioni che un certo tipo di televisione riesce a far germinare nell’animo dei più deboli.
Messo spesso accanto a Paolo Sorrentino perché con lui e con pochi altri nomi è riuscito a portare di nuovo il cinema italiano in giro per il mondo (al prossimo Festival di Cannes, per esempio) il regista romano conserva il piglio e l’estetica del vero autore in quanto si è dimostrato capace di nascondere i propri modelli di riferimento fra le righe di uno stile personale, cioè unico, immediatamente riconoscibile e che, soprattutto, sa andare al di là del mero esercizio di stile.
Nelle sue atmosfere tipicamente stranianti, fra i volti di cast ideali che rimangono in testa come le figure in secondo piano dei ritratti del Rinascimento, ha osato immergere anche un’opera fondamentale come Lu cunto de li cunti di Giambattista Basile, che sarà il prossimo film firmato Garrone che potremo ammirare.
Già dalle prime immagini de Il racconto dei racconti si respira aria fresca e nuova.
Francesca Fichera
Anche i suoi esordi: ospiti, terre di confine, sono meravigliosi. Più vicino al documentario seppur filtrato dal cinema,ma sono grandi opere anche quelle
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Non ne ho parlato perché effettivamente sono gli unici di cui ho solo conoscenza indiretta, perché ancora non li ho visti. Conto di recuperarli il prima possibile, in nome della stima immensa che nutro nei confronti di questo artista-regista!
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