Il cavallo di Torino (Béla Tarr, 2011)

Che fine ha fatto il cavallo di Torino.

Avete mai letto qualcosa di Ernest Hemingway? Di sicuro il paragone fra (per citare il più eclatante) Il vecchio e il mare e Il cavallo di Torino può sembrare assurdo, almeno perché nel primo caso abbiamo a che fare con qualcosa che scorre e rapidamente irradia senso dalla sua forma compiuta.

Mentre questo  davanti al quale ci troviamo è un fiume che porta all’estremo i dettami del linguaggio convenzionalmente conosciuto, del Cinema. Ma è una metafora ininterrotta e perfettamente mimetizzata, proprio come gli scritti di Hemingway, che svela i suoi molteplici significati nel suo lento, cadenzato, progressivo comporsi.

Io ho sempre amato citare l’episodio biografico di Friedrich Nietzsche che viene attribuito all’origine della sua pazzia, perché è in quel momento che il filosofo si rende conto di aver sbagliato tutto, dell’incompatibilità del mondo con il vero se stesso, un mondo storto, sbagliato, crudele, senza speranze, che andrà avanti così fino alla notte dei tempi, nonostante qualcuno si ostini a riaccendere il fuoco, il lumicino dell’andare avanti nonostante tutto.

Nietzsche abbraccia il cavallo frustato dal cocchiere, piange, strepita, infine tace. Non prima di aver detto a sua madre: “Mutter, Ich bin dumm” (“Mamma, sono uno stolto”). Poi l’oblio.

Georg Simmel volle dare una lettura spirituale-esistenzialista del gesto, intendendolo come estrema autoespulsione dalla nuova modernità dilagante delle metropoli. Milan Kundera invece – ne L’insostenibile leggerezza dell’essere – vide nello struggersi delirante di Nietzsche  una doverosa richiesta di perdono per la disumanità dell’umanità, la stessa che il pensiero filosofico a lui precedente aveva in qualche modo resa legittima.

Nessuno si era mai domandato che fine avesse fatto il cavallo.

Se l’è chiesto l’ungherese Béla Tarr e, nel chiederselo, ce l’ha mostrato senza complimenti in 145 minuti magistralmente girati fra l’interno spoglio di una capanna e l’esterno di un desolato paesaggio rurale sferzato dal vento.

Sei giorni di vita e di lavoro di due contadini, padre e figlia, racchiusi fra quattro mura, in due ore e mezza parche di parole e di stacchi di montaggio. Tutto è nei piani-sequenza, eccezionali, potenti, in grado di restituire la forza atavica del cinema. Quella sospesa tra fotografia in movimento e racconto per immagini. Una graduale apocalisse quotidiana che si fa integrazione perfetta di forma e contenuto, un’esperienza sofferta tramite di sofferenza che solca la memoria.

La corruzione non lascia tregua, come il vento incessante che batte sulle pareti del rifugio fino a prosciugare i bisogni dell’uomo. La vita umana è ipostatizzata nell’abitudine, nei gesti dettati dalla necessità, negli ossessivi schemi del tempo. Ma è un equilibrio destinato a rompersi per natura: l’acqua finisce, il cibo marcisce, il cavallo non si muove più, il fuoco fatica a restare acceso.

Tarr riproduce l’esistenza in tutta la sua «inevitabile pesantezza». E a chi gli domanda cosa c’entrano Nietzsche e il cavallo con la sua creazione, lui risponde: «C’entrano, perché fanno parte del film come il cavallo del carro e tutto il resto».

Così quando lo sguardo della mdp, che segue e ha inseguito la prolissa routine degli sventurati, indugia sull’amara scoperta del pozzo vuoto, nulla ci vieta di pensare che a guardare davvero sia il filosofo tedesco. Conservando per un momento le distanze, immobilizzandosi sulla soglia, perché c’è ancora qualcosa che va osservato da lontano. Per provare a salvarsi.

Francesca Fichera

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6 pensieri su “Il cavallo di Torino (Béla Tarr, 2011)

  1. Come ho scritto nel recensirlo e nei commenti ad altre recensioni, insomma ovunque, il film è totale e definitivo. Non riesco a pensare ad altri aggettivi, specie se si considera l’intera filmografia del regista. È bene parlarne perché l’opera è immensa. Sottoscrivo inoltre il tuo sottolineare con forza l’episodio iniziale di Nietzsche, che assume qui una valenza a posteriori enorme.

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    1. Totale e definitivo sono aggettivi più che sufficienti. :) Condivido tantissimo la tua analisi, come del resto ti ho già scritto.
      A questo punto mi incuriosiscono gli altri film di Tarr. Per qualcuno sospetto sarà necessaria una dose di “coraggio” ben più grande, ma se i risultati son questi inutile dire che ne vale la pena. – F

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      1. Ah, ma non avevo capito non avessi visto altro. Allora sappi che sei una persona molto fortunata. Guardali tutti. L’unico che mi è piaciuto un po’ meno è The Man From London, ma guardali tutti in ogni caso ;) e si, per un titolo in particolare ci vorrà una dose di coraggio interessante, anche se, ad onor del vero, il modo che ha di dilatare i tempi fino all’estremo, tende a stravolgere anche la percezione del tempo e a non farti pesare lo scorrere dei minuti. Vedrai…

        Del resto, dalla tua analisi emerge già l’aver centrato in pieno lo spirito del cinema tarriano.

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      2. Proprio così, il tempo del racconto cinematografico di The Turin Horse è più un’esperienza viva che una categoria opprimente. Vedrò di procurarmi qualcosa di suo e di inserirlo nella mia già chilometrica wishlist! :) – F

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